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Quante deviazioni hai?

Creato il 26 gennaio 2012 da Dallenebbiemantovane

Quante deviazioni hai?

 

Mi sarebbe parso strano se nessun recensore cinematografico del web avesse evidenziato le apparenti somiglianze tra Shame (di Steve McQueen, UK 2012, drammatico) e Eyes wide shut : lo fa, infatti, il sito Movieplayer. Oppure quelle con Crash di Cronenberg: lo fa Ondacinema, che cita anch’esso l’ultima opera di Kubrick.

In comune con EWS (USA 1999) riscontriamo la fotografia livida e un protagonista di sesso maschile spiato e pedinato dalla telecamera in una New York notturna, squallida, gelida, grigia di giorno e bluastra di notte, ma le somiglianze finiscono qui.

Se là Tom Cruise si faceva notare per una delle più ridicole interpretazioni della sua carriera, di Michael Fassbender non è eccessivo affermare che ha messo corpo e anima in questo film, con espressioni incredibilmente vere e incredibilmente convincenti.

Se là, inoltre, si aveva la messa in scena schnitzleriana della sistematica frustrazione del desiderio – e, l’avevo già detto in tempi non sospetti, sono convintissima che Kubrick abbia trasposto troppo tardi Doppio sogno, che era un romanzo intriso di freudismo, una storia poco credibile se ambientata a fine millennio, proprio perché nel frattempo la società era completamente cambiata e rendeva urgente non l’indagine sulla repressione dei desideri all’interno del tradizionale matrimonio monogamo, ma quella sull’eccesso di libertà sessuale e sul pericolo della caduta del desiderio - si potrebbe pensare che Shame, di Eyes Wide Shut, altro non sia che la nemesi tardiva.

Tanto era centrifugo EWS (l’esplosione della coppia), tanto è centripeto Shame (l’implosione dell’individuo).

Senonché, altra discordanza significativa, Schnitzler/Kubrick dotavano la protagonista femminile di una sua identità, o almeno di un anelito, un’aspirazione a chiarire chi è la donna e che cosa desidera (“Se solo voi uomini sapeste...”, inizia il famoso monologo di Nicole Kidman).

Mentre in Shame non troviamo una protagonista vera e propria, semmai un negativo e un’impossibilità ad amare.

Il negativo di Brandon è Sissy, e viceversa: anaffettività vs. dipendenza affettiva; uomini che non riescono ad amare vs. donne che amano troppo. Sono fratello e sorella, ma le loro dinamiche somigliano a quelle di una coppia, una coppia profondamente disfunzionale.

Nello stesso tempo, il terrore dell’intimità di Brandon gli impedisce di avere relazioni amorose che oltrepassino il sesso anonimo; il suo volonteroso tentativo con la collega dolce e disponibile si rivelerà un fallimento totale, sia nella comunicazione che nel sesso.

Anche il paragone con Cronenberg, il Cronenberg della fase ipercorporea naturalmente, regge solo fino a un certo punto. L’esibizione impudica e dolorosa dei corpi c’è, ma in Crash era finalizzata a un discorso interessantissimo sull’ibridazione umano/macchina; ne La mosca a quella umano/animale; in Inseparabili all’angosciante rapporto tra due persone gemelle che non potevano vivere, o amare, l’una senza l’altra.

McQueen, al contrario, è con tutta evidenza interessato non alle modificazioni che il corpo può subire a causa delle perversioni della psiche, ma al rapporto tra sofferenza e piacere laddove in apparenza c’è solo piacere e godimento. Brandon, chiariamolo subito, non è un allievo del marchese de Sade; i suoi rapporti, a pagamento e non, sono solo in apparenza quelli di un predatore sessuale; se gratuiti, prevedono una breve seduzione reciproca, e una partner consenziente. Il fatto è che la sua maschera è quella dell’angoscia, non quella della gioia.

Dove sono finite le promesse di liberazione sessuale di Wilhelm Reich? Forse sono morte con lui in una galera dei civilissimi Stati Uniti d’America.

Ma la galera di Brandon è la sua totale libertà sessuale. Libertà che lo costringe a scaricare tonnellate di materiale pornografico sul pc dell’ufficio, e ad accendere quello domestico non appena mette piede in casa, per continuare con le chat e compagnia bella. Quando la coda agita il cane, di solito il cane è nei guai.

C’è una catarsi possibile, per tutto questo? Dicono che quando tocchi il fondo, dopo puoi solo risalire. Ma il finale, realisticamente, non dà una risposta definitiva.

Il film è una sequenza di scene di una bellezza indimenticabile, fosse anche solo dal punto di vista estetico, senza però l’autocompiacimento sintomatico dell’assenza di una storia da raccontare: McQueen, videoartista, scultore e fotografo, una storia ce l’ha, e molto drammatica.

Ma la scena iniziale della mancata seduzione in metropolitana, angosciante, più volte interrotta da flashback e flashforward, caricata dalla colonna sonora lirica ed essenziale, ce la ricordereremo a lungo. O quella dell’orgia prefinale, anch’essa angosciante come poche, con primi piani che non lasciano dubbi sulla distruttività del protagonista. O ancora la sequenza di New York New York, cantata, sfigurata, deformata da Sissy in una chiave esistenzialista, che da sola dice tutto del rapporto tra i protagonisti del film e il loro ambiente, così come della coazione al suicidio della ragazza stessa (un’ottima, come sempre, Carey Mulligan).

Quel che lascia un poco perplessi, nei tanti inviti a vedere questo film, su settimanali, siti internet, con interviste al regista o al protagonista Michael Fassbender (meritatissimo il premio per la miglior interpretazione a Venezia 2011) è il tocco di moralismo, di ripugnanza, diciamo pure di superiorità che aleggia sopra tutti questi apparenti elogi.

Come a dire: sì, andatelo a vedere, così vi sentirete superiori anche voi. Perché noi (e voi) non siamo mica come quello lì, e del resto il cinema non è mica la realtà, non è che se vai a vedere Via col vento poi esci e ti credi la reincarnazione di Rossella O’Hara, suvvia. Non esistono mica, nel mondo reale, stronze manipolatrici come quella, che venderebbe la nonna per soldi e che per anni cerca di rubare il marito alla migliore amica, per rendersi conto solo quando è troppo tardi di avere accanto l’uomo giusto?

 

E quindi, tu spettatore virtuoso e maturo e immemore dell’ammiccante insulto di Baudelaire alla fondamentale ipocrisia del lettore, tu mica ti farai impressionare, contaminare, immedesimare da un vergognoso – vedi titolo – sexual addict, come si dice oggi. Tu non le fai, le cosacce, vero? Tu non hai il chiodo fisso di Brandon, non sei ossessionato da quello che ossessiona lui, giusto? Non sei mai uscito con una persona come lui, vero? Tu, uomo e soprattutto donna, non hai mai visto un solo film porno, da solo/a o in compagnia, ci mancherebbe! Roba per i pervertiti! Figuriamoci tutto il resto: riviste specializzate, oggettistica, chatline, locali per scambisti... le fanno solo gli altri, quelle robe lì.

E non assomigli nemmeno al suo capoufficio, vero, quello sposato che ci prova con tutte (e ogni tanto, per la legge dei grandi numeri, ci casca qualche più ingenua come Sissy, la sorella di Brandon e sua complementare nella smania di autodistruzione), vero?

 

Né tantomeno rassomiglierai a Sissy, che rompe l’anima agli uomini sfiancandoli di telefonate, invade la vita e la privacy del fratello fino a farne esplodere tutta l’aggressività repressa, vorrebbe sempre essere protetta, non è mai diventata adulta e insomma ha una vita del tutto fuori controllo?

Insomma, io non posso che concordare con i critici che consigliano la visione di Shame, ma forse per i motivi sbagliati. Gli stessi che mi hanno fatto amare, e molto, La vita oscena di Aldo Nove (Einaudi, 2011), opera sperimentale, lancinante, autobiografica; e solo apparentemente romanzo.


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