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Quanto Vale il Tuo Lavoro?

Creato il 22 gennaio 2015 da Angelozinna

Quanto Vale il Tuo Lavoro?La questione è scaturita da una domanda quasi banale: “Se i soldi non avessero valore, come passeresti le tue giornate?“. Il fatto, secondo me, è che i lavoratori si possono dividere in due categorie distinte, chi lavora per passione e chi per i soldi. Per la prima categoria, la minoranza, i soldi sono un bonus, un modo per fare meglio o a tempo pieno ciò che farebbero comunque. Per i secondi, invece, il premio, non così scontato, è il tempo. Chi lavora per raggiungere lo stipendio vedrà nei soldi la priorità e nel tempo libero – tempo da dedicare a sé stessi, tempo per spendere quanto guadagnato, tempo per fare ciò che si ama – un’opportunità. Far parte di una categoria o dell’altra non è per tutti una scelta, non sempre le proprie passioni sono adatte a diventare un lavoro, per questo ci si trova a svolgere una professione più o meno piacevole per poter perseguire quelle passioni quando questo ci è concesso.

Adesso, poniamo che quelle passioni richiedano più tempo di quanto rimanga dopo otto ore di lavoro. Si comincia rimandando al futuro, postponendo i propri progetti di vita per un momento più adeguato, per quel periodo indefinito in cui potremo permetterci di fare ciò per cui oggi lavoriamo. Sacrificare anni di vita però non è sostenibile, così cominciamo a riempire quelle piccole finestre di tempo libero con distrazioni, intrattenimento, oggetti di cui prenderci cura, debiti. Così ci si trova a non stare mai né troppo male, né troppo bene, e la vita continua a scorrere nell’abitudine ad un ritmo che ormai crediamo di saper controllare, nel quale ci adagiamo notando che, in fondo, c’è chi sta peggio. Finché, un giorno, ormai abbandonate quelle intenzioni iniziali, non ci fermiamo in un momento di stallo e viene da chiederci, “Per cos’è che sto lavorando?“.

Poniamo ora che l’intenzione iniziale fosse quella di viaggiare, ma potrebbe riguardare la musica, l’arte o lo sport, non importa. Viaggiare lontano e viaggiare a lungo, implica quasi sempre dover abbandonare il proprio lavoro e questa è una cosa che in pochi possono permettersi di fare. Si comincia mettendo le cose su una bilancia ed essendo qualsiasi impiego una forma di sicurezza, sia morale che economica, avrà sempre dei punti di vantaggio su ciò che invece è un grande punto interrogativo. Per capire quando è il momento di partire, è necessario confrontare le due opzioni e capire quale vale di più. Ci sono i soldi è vero, che fanno una grande differenza, ma questi hanno un valore relativo dato che comunque non sembrano mai essere abbastanza. Anche quando si ha qualche risparmio si sa bene che il mese successivo quei risparmi saranno aumentati, e così tra un altro mese ancora, immagina quanti saranno tra un anno. Si procede giorno dopo giorno pensando al futuro, senza mai fare della svolta il presente. Forse, ci sono altri modi di prendere le misure.

Quando è giusto lasciare il lavoro per dedicarsi ad altro? Dipende dal lavoro, ovvio, ma la prima cosa da valutare è se, oltre allo stipendio, si hanno altri vantaggi a mantenere la posizione. Come un viaggio anche qualsiasi impego è un’esperienza, quindi c’è un periodo iniziale in cui oltre allo stipendio, si impara qualcosa di nuovo. Finché si riceve un insegnamento vale la pena considerare di restare, ma quando il pagamento sono soltanto soldi, o i soldi aumentano o si può lasciare perché il momento migliore della giornata di un uomo non vale certo quei cinquanta, settanta o cento euro. Se la priorità fosse la crescita personale, una volta assorbite tutte le conoscenze a disposizione, una volta imparato tutto ciò che c’era da imparare, non si avrebbe più niente da guadagnare. Ma c’è la carriera. Certo, c’è sempre quella scala astratta alla quale si vuole arrivare in cima e un anno sabbatico sarebbe un ostacolo. Meglio fermarsi. Meglio fermarsi se l’interesse però è davvero crescere e non solamente raggiungere una posizione sociale. Perché se l’obiettivo è diventare capo solo per essere un capo, sarà difficile mantenere lo stesso entusiasmo di chi vuole diventare capo, ma non ha problemi a lavare i piatti e quindi può permettersi di lasciare a favore di progetti più rischiosi. Poi siamo in Italia, e c’è tutta quella storia dei contratti che non si può far finta non esista: per chi ancora non ne ha uno, da evitare come la peste dovrebbe essere un contratto indeterminato, che farà annegare nei sensi di colpa col solo pensiero di licenziarsi. La sicurezza però non deriva solo da questo, ma anche da quanto specifica è la mansione da svolgere. Un operaio in una fabbrica di spazzolini, ad esempio, dovrebbe dare massimo valore al suo posto, perché non ci sono molte fabbriche di spazzolini. Il suo lavoro è più difficile da esportare. Un cuoco invece dovrebbe convincersi che la cucina in cui si trova non è poi così importante, perché di gente che ha fame se ne trova sempre.

Il concetto è semplice: è questione di soldi, ma fino ad un certo punto. Qualcuno sta comprando tutto il tuo tempo per troppo poco? Parti. Hai smesso di imparare qualcosa di nuovo da un pezzo? Parti. Non farai carriera perché carriera la fanno solo i raccomandati? Parti. Non ti interessa che gli altri ti identifichino con la tua professione? Parti. Un contratto indeterminato ti sta schiacciando? Parti. Il non partire ti spingerà a fare dei debiti che ti spingeranno a non partire? Parti. Le tue conoscenze sono esportabili? Parti. Hai capito leggendo questo articolo che quello che fai è del tutto insignificante? Parti. Altrimenti, resta.


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