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Quattro passi fra le nuvole

Da Aquilanonvedente

quattro passi fra le nuvole (1)Immaginate di trovarvi nei panni di un agente di commercio (di caramelle e cioccolatini) nell’Italia degli anni trenta.

Immaginate che, durante un viaggio di lavoro particolarmente turbolento, tra smarrimenti di biglietti ferroviari, perdita di coincidenze, viaggi in corriera travagliati, incontrate una ragazza, Maria, dall’aria triste e dallo sguardo pensieroso.

Immaginate che questa ragazza vi racconti che sta tornando dalla sua famiglia dopo anni che manca da casa e che ci sta tornando con un sorpresa: è incinta, ma non è sposata; anzi, è stata addirittura abbandonata dal suo compagno.

Immaginate che questa ragazza vi proponga di sostenere la parte di suo marito, ma per un giorno soltanto, giusto il tempo di essere presentati alla sua famiglia, perché suo padre, se conoscesse la sua storia, la caccerebbe di casa e lei non saprebbe dove andare.

Immaginate di accettare la parte perché quella ragazza vi fa un po’ pietà, ma solo per qualche ora, perché a sera volete prendere la corriera per proseguire i vostri affari.

Immaginate che la famiglia della ragazza – e soprattutto il padre, burbero e autoritario – vi accolga dapprima con diffidenza, ma poi insista affinché vi fermiate a cena, e organizzi un banchetto per festeggiare il matrimonio.

Immaginate di iniziare a innervosirvi, perché in quella situazione proprio non ci volete stare, ma che facciate comunque buon

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viso a cattivo gioco, sperando di riuscire a prendere finalmente la corriera il giorno dopo.

Immaginate che il giorno successivo la famiglia della ragazza scopra che in realtà voi non siete suo marito, ma avete già una moglie e dei figli e  che voi allora raccontiate come sono andate realmente le cose.

Immaginate che il padre della ragazza dia sfoggio a tutta la sua rabbia e al suo risentimento verso la figlia e decida di cacciarla di casa, perché la sua è “una casa onorata“.

Immaginate allora di sostenere una discussione pacata ma ferma con quel padre cocciuto, inflessibile, offeso, rispettandone il dolore ma senza rinunciare a convincerlo che quello che sta facendo non è giusto e che probabilmente per dare retta al suo orgoglio compirà un atto del quale potrà pentirsene per tutta la vita.

E immaginate, alla fine, di fronte a quell’uomo irremovibile, di decidere di portarvi via quella ragazza, quando improvvisamente il vostro ragionamento fa breccia nella sua testa e nel suo cuore e di fronte alla figlia, timorosa e angosciata, le dica che può restare nella sua casa, fingendo addirittura di ignorare come siano andate realmente le cose e suggellando il vostro incontro con una stretta di mano.

Ecco, ho riassunto indegnamente la trama di un film che ho rivisto ieri sera su una piccola tv privata: “Quattro passi fra le nuvole” e che Wikipedia racconta con maggiore dovizia di particolari.

L’avevo già visto quel film, magistralmente interpretato dal grande Gino Cervi e da Adriana Benetti, diretto nel 1942 da Alessandro Blasetti che vede come sceneggiatori anche Aldo De Benedetti, Cesare Zavattini e Piero Tellini (Alessandro Blasetti, tra parentesi, è stato uno dei maestri di Pietro Germi ed ha impiegato per la prima volta nel cinema la coppia Sophia Loren-Marcello Mastroianni) e che è stato ricompreso tra i 100 film italiani da salvare.

Non sto qui ora a dilungarmi su cosa abbia rappresentato per il cinema italiano il grande Gino Cervi. e quanto sia stato eclettico nelle sue interpretazioni. In realtà, ho rivisto questo film perché non ricordavo più il finale.

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Orbene: come finisce il film?

Gino Cervi, alias Paolo Bianchi, alla fine del suo viaggio di lavoro torna a casa, stanco. Entra in un palazzo anonimo (ben lontano da quel mondo agricolo vivace, profumato e colorato che si è lasciato alle spalle), raccoglie la bottiglia del latte di fronte alla porta di casa ed entra in un appartamento desolante e alquanto squallido. Si intuisce che è mattina e si sente una voce sgarbata e autoritaria provenire da un’altra stanza che gli ordina di mettere a bollire il latte.

E mentre versa il latte, ricordandosi di quello che aveva bevuto – appena munto –  qualche giorno prima in compagnia di Maria, Paolo si sente male e l’ultima inquadratura è dedicata a lui che si porta la mano alla fronte e al coperchio del pentolino che cade per terra.

A volte, durante il faticoso cammino della nostra esistenza, può capitare di vivere “avventure” nelle quali si riesce a tirar fuori il meglio di noi stessi. Poi la sera si rientra in una normalità asfittica e tutto si spegne nell’oblio, si annulla nei ricordi, annega in un pentolino di latte messo a scaldare per fare tacere una voce insopportabile.

E questa è una lenta e interminabile agonia…

Un piccolo omaggio a Gino…



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