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Quel gran figlio di due padri

Creato il 30 aprile 2015 da Albertocapece

 Quel gran figlio di due padriAnna Lombroso per il Simplicissimus

E chi l’avrebbe detto: quello che ogni giorno di più appare come un  teppista, vanaglorioso e superficiale, come un bullo, screanzato e facilone,  coltiva la memoria dei suoi grandi di riferimento e rende omaggio al loro esempio. Il fatto è che a differenza dei picciotti cui siamo abituati, non ha un padrino solo. Eh no, quel gran figlio di.. – col necessario rispetto per l’onorabilità della signora Bovoli in Renzi – di padri ne ha due e a scelta, come tira il vento, come suggerisce l’opportunità,  risponde al codice genetico dell’uno o dell’altro.

Così in questi giorni prevale papà Bettino: possiamo immaginarci il giovane premier in stivaloni, gambe larghe, mani sui fianchi, mentre sfida con piglio tracotante, malgrado una mascella non proprio volitiva e una voce niente affatto tonante, minoranze pusillanimi, pavidi disfattisti, moralisti avariati, avanzi decomposti del passato che cercano di ostacolare il ritorno grazie all’Expo, della Milano da bere e dell’Italia da mangiare, e in un sol boccone.  Sempre più decisionista, sempre più autoritario, sempre più piccolo cesare, sempre più anticomunista, proprio come l’esule del quale c’era da temere di avere un po’ di rimpianto, sempre più sfrontato, non rinnega però l’altro padre, sempre più assoggettato a padronati influenti al cui tavolo aspira da buon provinciale a essere ammesso, sempre più irridente di regole, che piega alla sua volontà e al suo interesse, a cominciare dalla Costituzione che oltraggia anche a scopo dimostrativo, in modo da rendere manifesto che l’unica legge a contare è quella del più forte. E come tutti e due si muove tra fedeli e fidelizzati,  lacchè e famigli, fan e cheerleader, ammiratori e groupie che sprona come un vero life coach,  incoraggiandoli  a trasmettere il verbo – probabilmente volere che fa rima con potere –  a non fermarsi davanti a legittimità e opportunità, in favore di autorità e di opportunismo, a impiegare profittevolmente disinvoltura, impudenza, manipolazione, intimidazione, ricatto, corruzione, vizi che i suoi due padri hanno convertito in pubbliche virtù ben prima di lui, ma che lui esaltare con formidabile potenza.

Chi l’avrebbe detto che dopo 70 anni sarebbe arrivato nei panni di un guappo strafottente, quello capace di affossare definitivamente  ogni pretesa di  costituzionalismo, ogni aspirazione  democratica per ristabilire il primato dell’esercizio senza freni e senza limiti del potere  assoluto  ed arbitrario, riconsegnato nelle mani del sovrano, fosse pure  un “re travicello”.   Chi l’avrebbe detto che a forza di restringere la rappresentanza, a forza di limare la democrazia fino a farne un regime formale, è vero, ma nel quale erano ancora, sia pure virtualmente, garantiti i diritti e i riti del suo patrimonio fondativi: il  voto,  le consultazioni referendarie, i congressi dei partiti,  la concertazione con le parti sociali, avrebbe pensato un figlio di papà, senza arte né parte né elezione regolare,  a annientare anche ufficialmente quel poco che restava, la possibilità di assecondare le scelte elaborate all’interno dell’oligarchia, quella di schierarsi pro o contro, come ultima evocazione sbiadita della partecipazione.   Chi l’avrebbe detto che sarebbe toccato a chi non ha mai conosciuto lavoro, seppellirlo insieme a garanzie, conquiste e valori,  a chi ha conosciuto solo l’ubbidienza a padroni vicini e lontani, interpretare  e rappresentare quella formidabile e immateriale  potenza economica, quella cupola costituita da  istituzioni bancarie e finanziarie,  da multinazionali rapaci, da  quella classe capitalistica transnazionale che domina il mondo e che si è scelta killer  e kapò locali, servizievoli, spregiudicati, solerti e premurosi, pronti a spendersi con scorrerie interne e guerre esterne.

E chi l’avrebbe detto che l’avremmo sopportato come fosse una pena inevitabile per scontare il nostro legittimo disincanto, chi l’avrebbe detto che avremmo tollerato che presenze estranee che ci parlano da  distanze siderali, che restano nell’ignoto spazio profondo delle loro rendite, del loro arbitrio, dei loro privilegi ci offendano e ci umilino discettando intorno ai nostri interessi, decidano dei nostri destini, testimonino delle nostre priorità. E c’è chi da là, da quel mondo separato, vuole farci intendere che quello che importa è una legge elettorale “per sapere alla sera della domenica” chi ha vinto, cui affidare una delega in bianco per la nostra rovina. E c’è chi dice che non ce ne frega niente, perché Franza o Spagna purché se magna. E c’è chi dice che lo stato di necessità obbliga a disciplina e ortodossia, soprattutto da parte dei cittadini cui si impone la rinuncia come attestazione di fede come ai loro rappresentanti come fiducia formale e sostanziale.  E c’è chi dice che una riforma elettorale ci riavvicinerà alle urne e chi dice che la coazione a votare degli italiani è l’ennesima riprova che siamo un popolo immaturo, provinciale, legato a forme arcaiche di rappresentanza obsolescenti in società più adulte. Non ci salveranno i marziani, se abitano in quelle stesse galassie. Dovremo salvarci da soli.


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