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R’n’R

Creato il 02 ottobre 2015 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Essere roccia e non rotolare.

La strada provinciale che porta a San Francesco al Campo sembra una strada di campagna. I fossi da una parte e dall’altra che bisogna fermarsi quando arriva una macchina in senso opposto per non rischiare di finirci dentro, la campagna fradicia di pioggia, covoni abbandonati che sembra giugno ma è solo il primo vero giorno d’autunno. E queste piccole cappelle di mattoni antichi che chiudono nelle loro nicchie Madonnine scrostate dal tempo alle quali qualcuno porta sempre un fiore. Non son sicura che il Gran Piemonte parta davvero da qui. Non c’è anima viva. Un piccolo gregge di pecore e capre bruca silenziosamente in questa mattina di fantasmi.
I pullman – quando li trovo – sono stranamente anacronistici e forse troppo colorati per un parcheggio isolato tra le cascine.
Davano pioggia oggi. Tutto il giorno. Non si scappa. Le biciclette aspettano per metà sotto le tende, i meccanici si stringono nei loro giubbini. Fa freddo. I ragazzi non scenderanno prima del necessario. E hanno ragione.
DSC_0115DSC_0123Davanti al pullman IAM c’è Gianni. Una vita accanto ai corridori. L’ho conosciuto un anno fa a Stresa. Ci ha offerto il risotto che aveva preparato per i suoi ragazzi. Qui le amicizie cominciano con niente e continuano senza fine, di stagione in stagione. È una strana famiglia. Bella, di sicuro.
Gianni sorride, mi chiede se conosco il ragazzo che sta di fianco a lui vestito da motociclista. Sono sincera, gli dico di no. Igor, si chiama. Vuoto. Mi spiace, non lo riconosco. Poi mi dice il cognome. Astarloa. Igor Astarloa.
Lo massaggiavo io, questo! Dice ridendo.
Un campione del Mondo. Lui sorride e gli ridono anche gli occhi: castani, quasi verdi con mille ciglia come tanti spagnoli.
Quando si allontana Gianni mi dice che è uno alla mano. È rimasto tale e quale, non si è mai montato la testa.
Come Diego.
Lo vedo al foglio firma. Tutti lo chiamano, lui si ferma da tutti. Diego Rosa ha vinto la sua prima Gara da professionista ieri. A Superga. Praticamente a casa sua. È scattato davanti alla curva del suo fan club. Loro gridavano e lui è partito. Roba che a ripensarci viene la pelle d’oca e un po’ anche le lacrime agli occhi. Ha vinto. Ora è l’eroe. Anche se per loro lo è sempre stato. Diego sorride, si lascia scattare foto. A qualcuno dice pure di postarle sulla pagina del suo fan club così le può vedere. È complicato questo mondo. Il difficile è rimanere semplici. La gente ti ama il triplo quando resti te stesso. E anche di più.
Piove. Nessuno vuol partire. Eppure nessuno smette di scherzare. Michele Scarponi canta. Esorcizza tutto. Acqua, freddo, chilometri da fare. La pioggia comincia a farsi più fitta. Proprio adesso.
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A Ciriè le pozzanghere sono più larghe e più profonde. Io mi ostino a mettere le scarpe bianche: abbandonarsi a quelle invernali significherebbe arrendersi alla fine dell’estate. Ma c’è una foglia verde-gialla che trema sul vetro della macchina. Sta lì per dirmi che è finita davvero.
Autunno.
In fuga, oltre agli altri, ci sono Serghei Tvetcov, Cesare Benedetti e Alan Marangoni. Tre ragazzi che si meriterebbero un traguardo.
A volte basterebbe riavere indietro un quarto di tutto quello che abbiamo generosamente regalato, di tutto quello che abbiamo sperato. Basterebbe. Per annullare le frustrazioni e la fatica. La pioggia gratuita che inzuppa tutto fino alle ossa. Come quella di oggi. Senza tregua.
Dov’è la vostra stramaledetta poesia adesso?
Si cade, ci si rialza subito, si prende l’aria gelida in faccia per ore. Questo è uno sport che ami per la sua tenera cattiveria. Per quella giustizia che decreta che tutti devono prendere la stessa acqua, dal primo all’ultimo. E alla fine lo ami lo stesso, lo ami così, come tutte le cose inspiegabili. Le capisce solo chi le ama a sua volta.
Still love that game ha scritto Carlos Verona su Instagram, dopo i chilometri sotto la pioggia. Gioco, lo chiamano. Ma è una guerra vera.

A Ciriè arrivano così, come dopo una battaglia. Le divise e tutto il resto attaccato alla pelle. E’ la pelle stessa.
Il circuito finale.
Jan Bakelandts che attacca.
Pochi secondi. Una manciata di secondi nella pioggia.
Non ci arriva. Cosa saranno mai?
Dicevano che ci sarebbe stato brutto tempo e così è stato.
Dicevano che sarebbe stato un arrivo per velocisti. E così non è stato. Bakelandts li ha fregati tutti.
I massaggiatori aspettano i loro ragazzi ad uno ad uno, gli infilano le mantelline asciutte mentre tengono sottobraccio le bottigliette di integratori. Gli spiegano la strada per trovare i pullman. Angeli in k-way gocciolanti.
I bambini saltellano qua e là. Pochi, a dire il vero. Ma presi dalla solita frenesia della caccia alle borracce.
Se ti do una Kathusha tu mi dai una IAM?
Il rettilineo si svuota subito, quello che consola è che praticamente quasi tutti sono sotto le docce dei bus. Calde, finalmente.
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Sul primo gradino del podio, semicongelato come gli altri due, ma assolutamente su di giri c’è Jan Bakelandts. Si prende i fiori, la coppa, i baci e tutto il resto. Come al solito. Poi c’è l’inno ma lui ha già afferrato la bottiglia di vino ai suoi piedi. Fa per aprirla. Matteo Trentin, al suo fianco, gli fa un gesto come a dire: “Oh, c’è l’Inno”
Jan fa una faccia strana. L’Inno? C’è il vino da aprire! Si toglie il cappellino ma intanto ride. Spiega qualcosa a Matteo, indica la bottiglia. Almeno questo podio me lo voglio godere. Torna un po’ serio. Poi ride di nuovo. E’ che non si può stare seri quando si è contenti. Sulle ultime note apre la bottiglia. Bagna i fotografi, i compagni di podio, sé stesso. E poi versa il vino nella coppa. Beve da lì. Fuck the protocollo. Piove vino.
Questa era una corsa da Guns n’ Roses in November rain. Altro che ottobre.
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Sono eroi, di sicuro. Però quelli hanno superpoteri e, se si mettessero in bicicletta, la pioggia non li toccherebbe nemmeno. Forse basta pensare che sono uomini. E continuano ad amare tutto questo. Nonostante tutto.
Le risposte vengono da sé.
R’n’R dudes. Siete i migliori.



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