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Racconti – 2010/2011

Creato il 15 luglio 2013 da Faprile @_faprile

Francesco Aprile, racconti 2010/2011

If you’re feeling spiderland_ (agosto 2011) - su http://www.salentoinlinea.it

i belle and sebastian oggi sussurrano lo stereo. è triste se pensa al giorno fuori che non può correggere il suo corso e spegnersi prima d’arrivare. è triste se pensa e non ha altro a cui pensare. si veste svogliatamente. in maniera disordinata. è come se i suoi abiti fossero acquisti letti da una lista della spesa_ ed afferrati in fretta al supermercato_ e gettati alla rinfusa addosso al proprio corpo, come fosse un carrello vuoto da riempire. e gettati addosso come fossero le parole non dette al supermercato mentre si scelgono prodotti che altri hanno già scelto per noi. e che non mangeremo mai prima della scadenza. guarda il pacchetto di sigarette fermo sul tavolo. è indeciso. aspetta. pensa. all’elettrocardiogramma accelerato del mattino. la sigaretta arresa. nel pacchetto. appena il tempo per consumare il caffè e provare a ridestare lo stato d’animo avulso. che il telefono si sveglia. inizia a squillare. ma non ha voglia d’andare a rispondere. non ha voglia di rincorrere i suoni delle lontananze. si accende una sigaretta. si affaccia al balcone. la malinconia è uno sputo di sole sugli occhi. fuori. un albero dal tronco curvo smorza appena la luce. le prime auto del giorno. direzione lavoro. i primi fumi dei tubi di scappamento. il risveglio. è un’accelerazione del tempo. uno sbattersi del sangue su e giù per il corpo.

tre frammenti di lenzuola stanche (dicembre 2010 – gennaio 2011) – su http://www.salentoinlinea.it

Frammento 1.occhiali scuri vintage sul tavolo. un mazzo di chiavi. l’anestesia ancora in circolo nel corpo_ dopo la serata di ieri. pochi momenti di sollievo_ colorati da mal di testa. e denti. e ossa. e schiena.
pomeriggio inoltrato.
ancora sul divano. spalmato sghembo lembo di dinamite inesplosa. ardente nel cervello.
ore 18:_ aperitivo. continuum cervella_alcool misto a scena muta.
sera. dinamite esplosa. cervello colato. un buttafuori lo trascina con le buone. all’altro mondo di merda. aggira l’ostacolo burocratico per pratiche da non credente incendiato. sia fatta la mia volontà_ oh signore del non creato.
in conferenza stampa. mano ferma sul grilletto. annunciava la strage perenne.

Frammento 2.il dottore gli aveva diagnosticato un male. incurabile. molto forte l’impatto con la notizia. così da lasciarlo senza parole. in riserva. era tornato a casa. senza dir niente a nessuno. senza batter ciglio. immobile. anche davanti al dottore. nemmeno il battito del cuore era mutato alla notizia esplosa. correte. hanno assaltato la banca. e lui continuava dritto. verso casa. senza interrompere il suo passo. era già a casa. ma gli spari. fra poliziotti e ladri in borghese non interessavano assolutamente la volontà ferma del suo ascolto. prese una sigaretta dal pacchetto. frugò in giro per la casa alla ricerca dell’accendino. rubato la sera prima all’amico di turno. accese la sigaretta. uscì sul balcone. i rapinatori in fuga_ seppur in borghese_ ormai riconoscibilissimi. fuggivano dalla banca. uno di loro si fermò per un attimo. si fissarono negli occhi. il rapinatore sembrava chiedersi come mai_ un uomo fumasse la sua sigaretta nella pace totale. mentre fuori. sotto di lui. spari. urla. auto in corsa. auto in fiamme. pianti dei passanti. dei passanti coinvolti. la gente chiusa, dietro persiane. dietro finestre. dietro paure. lui no. a quel punto il rapinatore in borghese perse la volontà di scappare. non era una necessità. ora. per lui. voleva_ magari_ parlare con quell’uomo al balcone. voleva_ magari_ sapere che fumare da lì, con quella vista, doveva essere diverso. voleva_ magari_ sapere che la polvere da sparo di una sigaretta tramortisce gli sguardi di chi la subisce. più forte di un proiettile nella fronte. avrebbe voluto chiedergli questo. altro. ancora. avrebbe voluto fumare con lui. quando i poliziotti lo circondarono e gli intimarono di gettare via l’arma. lasciatemi fumare una sigaretta con quell’uomo – disse – da quel balcone. lascia perdere gli risposero. ormai sei fottuto, sono tutte richieste inutili. ma il rapinatore era coinvolto. troppo a stretto contatto con la volontà di sapere. di sapere come sarebbe stato_ osservarsi da lassù durante la rapina. con una morbida sigaretta fra le dita. e lo spazio vellutato di una sottile coltre di fumo setacciata solo dall’umido torpore di occhi fermi tiepidi. di chi sta per morire.

Frammento 3.non è morta che la solitudine. non è morta che l’ombra scevra della notte. non è morta che la metrica altisonante della fosca nuvola. non è morta che la pelle. ora rugosa dei tuoi seni. non è morta che la muta foschia cacciata dal vento. bella semplice. fugace loquace. ossuta muta. amplificata. da megafoni che filtrano suoni scongelati derelitti di lampioni accatastati su strade dimenticate. l’asfalto era grezzo. pieno di buche. i marciapiedi da evitare. in frantumi per via delle radici degli alberi. spenti. grigi tetri. ingessati dal loro impallidire. una puttana – che non ha mai voluto il nome di escort – spezzava la monotonia desolante di una spenta luce artificiale. concimava_ la sua presenza_ quello spazio agitato di vergogne. di strade. di sospiri trattenuti. di sguardi fugaci. rubati. veloci. di sguardi camuffati. incerottati dietro cappotti troppo goffi per la stagione e la statura del conducente. un’auto si fermava. – quanto? – la domanda di rito a spezzare l’inflessibilità dell’aria attorno. un cenno d’intesa. pochi attimi. lei sale a bordo dell’auto. l’auto si allontana spezzando un pezzo di tranquillità. portando con sé uno squarcio di notte. una linea bianca di fumo. come respiri appannati. di vetri consumati. fra il sesso al mercato. fra il sesso usurato dell’età di lei. poi. lui. sarebbe tornato. via. a casa. domani dagli amici. a raccontare di una lei improbabile. bella seducente. di fiumi di cocktails. di passione. profumata ancora di una notte appesa ai finestrini dell’auto. rubata alla calma di uno squarcio desolato. lungo una bianca linea di fumo. di una luna di calce. di tufo. polverosa soffitta di tempo.

 

Hanno assassinato la poesia (dicembre 2010) – su inparolesemplici

Hanno assassinato la poesia: premessa

hanno assassinato la poesia è la storia di una violenza. di uno stupro. ad un bambino, bambina. alla poesia. di una traslazione dei significati. delle figure. e ancora. di uno stupro. di una violenza. ad un bambino, bambina. Alla poesia. sottratta a quei teneri “boschi di vetro”. Sottratta alla versificazione d’infanzia. alla lallazione. sottratta. è scrittura per sottrazione. oggi. stuprata. Violentata sugli asfalti sui prati sui cieli. nell’infanzia di un bambino, bambina. della poesia. rapita. portata via, allontanata da tutti quei gesti semplici del quotidiano. dalla versificazione pura. bambino, bambina.

Hanno assassinato la poesia: racconto

hanno assassinato la poesia con un discorso fuorviante. stanotte. di colpo. mi sono svegliato. urla come di scimmie, ammucchiate attorno al microfono, sciorinavano strofinamenti dell’anima, sconclusa. era forse l’effetto della notte. Non credo. hanno assassinato la poesia con un colpo secco. Il distacco netto della retina aveva reso malvedenti gli assassini. si credevano nel verso. l’hanno assassinata. e di questo a loro non posso esser che grato. finalmente l’hanno liberata dalle loro stupide palle. con un colpo netto. separando l’idiozia delle urla, le loro, dallo scettro immacolato delle parole, della poesia, ormai violentata, caratterizzata da difficoltà nel relazionarsi all’atto sessuale, stuprata, condotta sulle rotte orgiastiche di mediocri in calore. non si sarebbe più avvicinata al contatto estremo del corpo. non ne avrebbe più annusato la disperazione. per entrarvici e scaturirne nuova, come vergine fiore dallo sterco. mentre attorno_ forti, tutti, gonfiavano le vene del collo, le loro mani tradivano i segni – stupidi – delle loro masturbazioni sacerdotali, come di rito, del mentre facevano distruzione poetica. Hanno assassinato la poesia con un discorso slabbrato. e lei non si sarebbe più avvicinata all’intimità violata delle sue terre desolate. incapace di farlo, avrebbe acuito il dolore, nella colpevolezza timida di nuove parole di vetro. speciali. libere deboli e fragili. come voci di bambini. preziose pietre come d’ingenuità infantile. di fiori. Come sillabati dalla pioggia. dalle nostre finestre chiuse. ornate da ingiurie scolpite fra le gambe. ornate da dispensamenti di sangue, di pugni lanciati in faccia al segno. di una notte clandestina. di una notte. una notte amara per la poesia. curva sulle sterili rugiade del mattino. curva. ancor di più sui ripiegamenti inconsci della sua infanzia atrofizzata incartata fra le violenze. hanno assassinato la poesia. di notte. fra lo sterco delle loro parole. e mai più sarebbe scesa nell’intimità immacolata di una notte d’amore. di fiori. come sillabati dalla pioggia. fra le sterili rugiade del mattino.

 

Urlo. Disperato urlo. (maggio 2010) – su poetarumsilva

Hai calpestato le tue stesse membra. Raccolto il sudore pallido sulla fronte. Eppure le orbite dei tuoi occhi sono ancora pronte a marciare lungo deserti. Sull’altra sponda del mai. A tracciare rotte stellari nel bagliore che ti soffoca. La distanza siderale fra il nostro soffio e l’annunciarsi di ogni nuova ora.
OOOOOOOOOH il buon vecchio Allen. Se solo ci fosse. Avrebbe le parole giuste. Le userebbe nel modo appropriato, mentre io sono qui a strozzarmi di sillabe al vento, nel vuoto di ora in ora, che l’urlo si perde nel soffio di un verbo, nello sciogliersi debole della lingua sotto i colpi dell’incertezza.
Avrebbe sicuramente detto con arguzia poetica dello scandaglio dell’oggi, ancora come ieri, nel vento forte che sfiora il cuore. Sollecita. La sollevazione ormonale delle emozioni. Avrebbe detto di solchi lungo il corpo nei giorni che corrono, intrepidi, intrecciano il loro scatto con l’insensata cattiveria figlia del crudo poetare dell’asfalto delle strade, refrattarie all’astronomia delle regole, facendosi ritratto adeguato di una vita a sprazzi, schizzi e rutti. E lui avrebbe ruttato, sicuramente, in faccia al mondo, tracotante poesia, stringendo fra le mani la necessaria sensazione di sentirsi al di fuori di tutto. Come una vita che ci scivola addosso. Nel rosso denso che flette l’ansietà del corpo verso percorsi irti di niente. Avrebbe detto di parole crude che si incastrano con l’oggi in modo perfetto, cesellate l’una all’altra come petali di un fiore. OOOOOOOOOOOOH il buon vecchio Allen e tutto il vuoto di una cadenza asmatica di emozioni, dell’oggi, senza possibilità di ritorno. Basterà il candido bacio del nulla a spegnere ogni sensazione. Basterà o magari rafforzerà tutto. Tutto il nulla di una distanza, di uno stupido stupendo tremore delle mani, di quella felicità che ti azzoppa, di quella semenza di viscerale stupore che ti assale nell’attimo finale; l’attimo dell’ora. Le ore passano in fretta, questa è l’ora finale. Fossero le ore come gli inverni, non scorrerebbero mai. Fossero le ore come le distanze, non si affievolirebbero mai. Fossero le ore. Fossero. Semplicemente se fossero, noi non saremmo qui ad abbracciare quel candido pallore che sa di niente, che sa di sale su ferite aperte.
E così mi dicesti, basterà il candido bacio del nulla a spegnere ogni sensazione. Basterà. Ma è vero? Lo senti ancora quel tremore alle mani quando si avvicina la fine di un’ora? Non riesco a farne a meno.
Ti assale ancora quella felicità che al sopraggiungere di ogni fine ti azzoppa? Ti abbraccia ancora quella sensazione? Ti scorre ancora sulle mani quel tremore? E ti manca l’appoggio finale, l’approdo. Non è un porto sicuro. L’acqua è così profonda. Nessuno, nemmeno il lupo tocca. Nessuno. L’acqua è così profonda. L’ora finale. Ti manca l’approdo, l’appoggio finale e allora lo so, lo senti ancora quel tremore alle mani quando sta per finire un’ora. L’ora della fine, perché non tocca nemmeno il lupo, Fenrir, che sta per morire. L’acqua è così profonda e non è un mondo buono nemmeno per i giganti. Non tocca nemmeno il lupo che sta per morire. Basterà il candido bacio del nulla a spegnere ogni sensazione? L’ora della fine. Ci fonderemo col tremore che prende le mani, saremo felicità che azzoppa baciando il niente nell’ora della fine.
Così, camminando fra sguardi assenti, resettando di volta in volta il percorso di una vita e, poi, quello di un minuto e di ogni minuto, passo dopo passo sentivo scorrermi addosso una frenesia tale da diventare ansia, sudore freddo e la sensazione che il cuore potesse scoppiarmi da un momento all’altro, facendo scorrere pezzetti di me sui volti dei passanti. E sarei vissuto ancora un po’, nello stupore orripilante dei passanti asettici che, per un attimo, avrebbero assaporato almeno il disgusto dei pezzetti di me esplosi sui loro volti. E allora avrebbero iniziato a correre, terrorizzati, ed io con loro e con lo stesso loro terrore. Avrei percorso, ancora sui loro volti, i loro stessi passi di orrore. E mentre camminavo tra le fila di una folla indifferente, con gli sguardi, tutti, lontani dai loro corpi, assenti, nella presenza di loro stessi. Potevo scorgere le fottute distanze che segnavano solchi incolmabili, fratture insanabili che la vita, inesorabilmente, aveva tracciato nel semplice corrugarsi di un’espressione. Il mio passeggiare combattuto tra le fila indifferenti della gente rimandava, di continuo, i miei pensieri al buon vecchio Allen, ormai lassù, lontano da noi in un riposo dorato in polvere di stelle. OOOOOOOOH il buon vecchio Allen se solo fosse qui. E mentre pensavo, all’improvviso, sentì scorrermi addosso la sensazione che solo determinate parole sapevano darmi e andai, nello scalpitare della memoria, a ricordi d’inchiostro nero dattiloscritto, a tratti sbavato come i passaggi della vita, da momento a momento, e ricordai parole che siglavano «Ho visto le migliori menti della mia generazione… » e corsi, per un attimo, io in preda al panico coi pezzetti di me esplosi e spiattellati lungo il mio viso. Poi mi fermai. Quasi ad asciugare via quella sensazione, togliermi di dosso la scadenza, ormai passata, di una vita che non era la mia. Vidi dall’altro lato della strada. Un uomo. Altezza intorno al metro e settantacinque, i capelli, lunghi, arruffati attorno al volto, difficilmente si lasciavano addomesticare, cadevano come fronde mosse dal vento a simulare il turbinio delle foglie secche, già posate per terra, nello sciogliersi di colori autunnali. Di corporatura media, il fisico palesava le difficoltà degli anni, delle sere passate a consumarsi come bicchieri vuoti sul bancone di un bar dove l’ultima goccia – tesa in un precario equilibrio fra il labbro superiore e la superficie del bicchiere – aveva in sé il tenue aprirsi degli occhi, sempre più piccoli, alle delicatezze dello stupore. Il volto mimetico, dotato dell’ermetismo asettico di un’espressione assente. Trasudava l’esplosione dell’Urlo. E grida. «[…] distrutte dalla pazzia, affamate, nude e isteriche trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa. » E tende, ancora, alla trasudazione. Cerca. E allora. Ancora. L’ora più nuova. Viva. E perde. Tutto il sentiero delle parole percorse in pagine dattiloscritte, in nero pesante, come il pensiero che non ammette ritorni, solo andate, fra costellazioni soppresse di stelle, come punti lontani, assuefatti all’irraggiungibile. Tutto era adatto all’Urlo. Pensai. Poi, voltandomi verso l’indifferenza, tentai di procedere lungo la mia strada, tra le fila della folla e, come di folla travestito, modellavo il mio volto all’incedere indifferente di un temporale in arrivo. Ma, senza rendermene conto, mi ritrovai ad attraversare la strada, a costeggiare l’altro capo dell’irraggiungibile, seguendo tracce racchiuse in versi lontani nella memoria, pressanti, di un vicino scottante, nelle orbite degli occhi. Alzai il passo che la sensazione era quella propria dell’Urlo. Il buon vecchio Allen, pensai, che poteva esserci solo lui in quegli occhi. Iniziai a seguire quell’uomo, completamente ignaro della mia convinzione, presuntuosa, che nel suo volto asettico potesse ritrovarsi l’energia smaniosa dell’Urlo. L’inseguimento assunse connotati, per me, simili alla disperazione. Gli occhi pulsavano con energia così forte da strappare via ogni goccia di vita dal resto del corpo. Urlo. Era l’unica parola che riusciva a restare incastrata nella lastra dei miei pensieri. Regolarmente, passo dopo passo, sottoponevo i miei pensieri all’attento esame del non ritorno. Così, maceravo me stesso. Tirai fuori una sigaretta. Provai a lasciarmi esplodere. A fumare «fumare nel buio soprannaturale di soffitte ad acqua fredda fluttuando nelle cime delle città, contemplando jazz che mostravano il cervello al Cielo sotto la Elevated e vedevano angeli Maomettani illuminati barcollanti su tetti di casermette che si accucciavano in mutande in stanze non sbarbate bruciando denaro nella spazzatura. » Ma passo dopo passo quell’uomo assumeva sempre più la dimensione ginsberghiana dei miei pensieri. Mutava. Tramutava se stesso nell’ottica, ferma nell’incredulità, dei miei occhi. Ora. Potevo vederlo meglio. Più vicino, anche se di spalle. Mutato nel tempo. Il buon vecchio Allen, ricurvo su se stesso, in quel piegarsi degli anni all’ombra di un ciliegio, nel rosso sangue che smantella via ogni schermata sensazionale, per ripulire l’apparato immaginifico, rendere l’altro impossibilitato a difendersi. Poi, sdentato anche. Come se il perdere i denti non fosse che l’unica cosa possibile, la dimensione necessaria dei giorni lasciati in pegno, a sacrificarsi all’altare della vita. Altrove. In un regno sacrilego di ratti fumanti e prati di pneumatici in fiore. Di spalle. Potevo vederlo. Urlo. Disperato Urlo.
Poi. Ad un tratto un colpo. Il rumore, ovattato dal frangersi contro il fragore della mia nuca nascosta fra i capelli di media lunghezza. Ed il buio. Che le trasmissioni erano finite. Interrotte. Nemmeno un Urlo a rompere il silenzio.

Yukìo (febbraio 2010) – su Il Paese Nuovo, http://www.salentoinlinea.it

La sensazione era quella, costante, di poter abbreviare il percorso, ma la strada non prometteva nulla di buono. Così, Yukìo, voltandosi verso di me, disse – Riusciresti a contare le distanze fra passi e passi? C’è tutto lo spazio di un respiro. Così dicendo riprese a guardare nel vuoto, oltre il finestrino, dove solo il suo sguardo poteva posarsi. Ricordo ancora quando, da piccoli, Yukìo inseguiva il suo aquilone nella speranza di poterlo raggiungere nel cielo. Mi raccontava sempre di una palude. Me ne parlava come fosse un posto magico. Per lei era una vera ossessione. Quel posto le era rimasto impresso sin da bambina. Di quella volta, Yukìo, non ricorda nulla, se non la sensazione di uno sciogliersi tenue della terra e del cielo, ritrovarsi come in un dipinto, sentire la propria pelle come una tempera essiccata al sole e guardarsi illuminati da colori particolari, densi di vita. Da sempre, costernato, la guardavo con ammirazione. Ogni capitolo della mia vita si apriva e si chiudeva con lei e la storia della palude, il ricordo di lei che inseguiva il suo aquilone. Il cielo che, per lei, aveva parole soffici come i sogni e le speranze di un bambino. Il cielo che, per lei, trovava tutto il tempo di una vita. La strada sembrava non finire mai, ne ero infastidito. Iniziavo a pensare al fatto che, probabilmente, Yukìo avesse sognato quel posto. Probabilmente non esisteva nessuna palude dove cielo e terra si sciolgono e mischiano come colori lungo la superficie di una tela. Pur non voltandosi mai verso di me, pur mantenendo lo sguardo fisso oltre il finestrino, Yukìo sentiva il mio esser nervoso ed infastidito, ma non la turbava. Di tanto in tanto, questo, la portava a reindirizzare le sue parole verso di me, senza concedermi la possibilità di uno sguardo che, in quella situazione di strada interminabile, sarebbe potuto essere più che confortante. Fu così che le sue parole, indirizzate allo spazio del finestrino, rimbalzavano sulla superficie trasparente del vetro per arrivare a me, destinazione ultima senza ritorno. Diceva – Riesci a sentire lo sciabordio delle foglie, là, sulla montagna? È tutto così a portata di mano che, noi, non sentiamo nulla. La mia speranza nella presenza di Yukìo iniziava a vacillare. Le mie certezze erano tutte le mie incertezze. Nello spazio breve di uno sguardo lanciato a monte delle mie sensazioni potevo scorgere la mia incredulità e l’idea di ritrovarmi da solo nel bel mezzo della mia pazzia. Di tanto in tanto. Mi voltavo verso di lei. Mentre ero alla guida. Lanciavo uno sguardo al di là delle mie perplessità credendo di trovare nel suo sguardo posato sul finestrino – la forza. la decisione. la determinazione. – il respiro adatto per intraprendere, una volta arrivati a destinazione, il mio cammino nella determinante andatura di un passo asincrono, dove poter trovare lo spazio necessario all’allestimento dei pensieri, ora vacillanti, come in fuga verso un increspato di onde. L’elegante dissolversi della schiuma nell’infrangersi del mare. Poi. Come sempre – un voltarsi di lei – come uno spasmo. Semplice. Veloce. Deciso. Un flash dalla forza d’urto pari a quella di mille anni di storia dell’uomo. Diceva. È come un soffio di vento. Fra i capelli, sulla nuca. A tagliare aria e orecchi, come se questi fossero in grado di astrarsi, dissolversi a metà fra l’orizzonte ed il reale, e sfumare il nostro ascolto con le parole dell’indicibile. Poi nulla. Come sempre. Non mi restava che, per chilometri e chilometri, il conforto, sempre più debole, dell’intravedere, con la coda dell’occhio, lo spazio tenue dei capelli corti – mai realmente distinti da un castano troppo chiaro ed un biondo dal sapore irreale del nostro tempo bambino – il continuo ciondolare del ciuffo sulla fronte, ed il regolare movimento delle mani a raccogliere ciocche lisce – penetranti come raggi di sole. la lenta disarticolante eleganza del niente – l’azzurro degli occhi che a dire il vero nascondevano un po’ lo specchio del mondo ed i suoi punti di vista, il naso, all’insù, stabiliva – forse – quell’eterno legame fra lei ed il cielo, quella sua impossibilità di stabilire un contatto reale col peso gravitazionale che ci tiene stretti al mondo. Così. Voltandosi per l’ultima volta. Disse. Visto? Ormai siamo arrivati. È solo questo. Il punto. La distanza che separa le mani dal nostro ascolto, ci nega alla percezione dell’esistere. E mi chiedevo come mai non avessi visto. sentito. nulla. Che forse è il nulla il nesso, lo spazio libero, preposto al niente, fra le mani e l’ascolto. A mani giunte, mangiucchiavo parole – fra uno sguardo e l’altro. a ricercare il senso stretto dell’ascoltare di Yukìo – e poi fu niente. Che mi accorsi che lei non c’era, sul sedile accanto al mio. Che in quel suo tendersi al cielo. Era forse il cielo stesso.


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