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Racconti – La consapevolezza del ragno

Creato il 08 agosto 2012 da Thefreak @TheFreak_ITA

Il sedici di agosto del 1977 morìElvis Presley; mio padre stava facendo il suo anno da soldato, pianse.

Nel 1977 mio padre aveva diciannove anni, una fidanzata che non sarebbe diventata mia madre, un obbligo di permanenza almeno annuale nell’esercito e circa trenta dischi di Elvis Presley.

Il sei maggio 1987 nacqui io; mio padre scontava il suo secondo anno di matrimonio, pianse.

Nel 1987 mio padre aveva ventinove anni, una moglie che ignorava le sue vecchie fidanzate, un obbligo di paternità nei miei confronti e nessun disco di Elvis Presley.

Tra il 1977 e il 1987 si trovavano: un terremoto, cinque anni di fidanzamento, un matrimonio, io.

Sono un figlio del terremoto. Già, perchè i terremoti non fanno solo vittime, io ne sono la prova.

I terremoti uniscono distruggendo. Uniscono perchè ci si ritrova tutti sotto il cielo, nudi, senza un tetto sotto cui ignorare i bisogni altrui.

Dopo un terremoto non puoi chiudere la porta in faccia al tuo prossimo, perchè le porte sono state

frantumate.

Dopo un terremoto non ti rimane che ricostruire, non ti rimane che rialzare dalla polvere quel poco disperanza che è l’unica sopravvissuta, lei e il campanile del paese.

Gran parte dei dischi di Elvis Presley che mio padre possedeva se li prese il sisma del’ ’80. Gli altri si sono persi tra le cianfrusaglie di mia nonna. Forse aspettano me in qualche armadio marcio. Immagino sempre che da qualche parte, tra il vecchio pentolame e i calendari ormai scaduti, c’è un quarantacinque giri che ancora custodisce le note di Are you lonesone tonight.

Così mio padre conobbe mia madre. Tremava lui, tremava lei.

Ora, quando un amore nasce e prospera durante i postumi di un terremoto, è facile pensare che i presupposti per una lunga durata ci siano tutti.

Cinque anni dopo i miei futuri genitori si sposarono.

Mia madre era avvolta nel suo vestito bianco come le nuvole; bianco come i muri del paese nuovo,

ricostruito – o quasi.

Mio padre era in nero, come tutti gli sposi. In nero come il lavoro che aveva trovato e che sperava di migliorare col tempo. In nero come i dischi di Elvis Presley che aveva perso.

In chiesa, il bianco e il nero si dissero che era bello unirsi, che era bello mischiare le stoffe come fossero yin e yang, come i film su cui avevano sognato, come la panna e il cioccolato dei bon bon alla fine del pranzo di nozze.

Mi chiamarono Andrea come mio nonno paterno.

Mio nonno: che uomo. Aveva un cancro, un desiderio matto di vedermi nato, un accordo con un

ferramenta suo amico affinchè gli procurasse una bicicletta per me.

La malattia non riusciva a prenderselo, lo piegava ma senza spezzarlo. Mio nonno aspettava la mia nascita,

la morte aspettava mio nonno e di conseguenza anche lei aspettava la mia nascita.

Nascendo posi fine alla sua attesa, gli diedi la felicità e allo stesso tempo la morte.

Sono figlio del terremoto, nascendo – mio malgrado – feci vittime.

Eppure morì con un sorriso; morì pagandomi una bicicletta che mi sembrò enorme per anni.

Passai la mia infanzia con la consapevolezza che mio nonno mi avesse lasciato qualcosa di gigantesco.

All’inizio pensavo che questo qualcosa fosse la bicicletta, ma poi crebbi e la bicicletta rimpiccioliva fino a diventare quella che era sempre stata.

Allora capii che l’eredit di mio nonno era un’altra. L’eredità di mio nonno era un tesoro che io tenevo seppellito dentro di me.

Per trovare questo tesoro dovetti aspettare di diventar pirata, di diventare adolescente.

Alla fine lo trovai, era sepolto proprio sotto la X della mappa, che coincideva col mio cuore: avevo il talento per l’arte.

Morendo, mio nonno mi aveva lasciato una bicicletta e il talento per l’arte. Con due ruote e il talento si può andare lontano. Almeno con la fantasia.

Ero un pirata in bicicletta, io e Pantani eravamo gli unici due farlo a livello mondiale.

Adesso Pantani è morto: sono rimasto l’unico.

La solitudine dei pirati in bicicletta”. Da scriverci un libro, da vincerci un Giro d’Italia.

L’adolescenza è un posto fatto di rumore e silenzio, di confusione e sperma, di brufoli e amore.

Forse i brufoli sono il modo con cui la Natura ci avverte che nella vita ci saranno ferite e cicatrici. Io ne avevo tanti, ora ho tante ferite. La cosa quadra.

Avevo il talento dell’arte, ma gli ormoni impazziti me l’appannavano. Il talento è un’auto che corre veloce su una superstrada, gli ormoni sono i moscerini che si schiantavano sul parabrezza sporcandomi la visuale.

Avevo bisogno di fermarmi all’autogrill e pulire i vetri, avevo bisogno di maestri.

Mio nonno era morto, Elvis era morto. Non avevo idea da chi avrei potuto imparare.

Il bello dei maestri è che sanno insegnare anche dal passato. Il bello dei maestri è che non nascono solo a Memphis.

La vita è un lungo susseguirsi di bivi, niente segnaletica in loco.

C’è chi si ferma ad aspettare che magari qualcuno passi, o magari stia tornando dalla strada che si vorrebbe prendere cosi può chiedere com’è più avanti. Ma nessuno passa, oppure se passa qualcuno non ti dice molto.

Più avanti è come non te l’aspetteresti”.

Allora meglio non aspettarsi niente, così i bivi li freghi. Meglio camminare spediti e dire: “come va va”. Che poi alla fine è vero: non si sa mai come viene – quando viene.

Oppure magari si ha fortuna: si incontrano ottimi maestri.

I miei maestri erano Monet, De Chirico, Mirò e tanti altri. Erano i grandi del passato e, come tali, pesavano sul presente.

Dipingevo convulsamente, gioiosamente fino ad addormentarmi stanco sulla tela. Il futuro durava il tempo che ci mette un colore ad olio ad asciugarsi. Poi diventava un presente stabile, una fotografia di un mio attimo di felicità.

La vita è un colore ad olio che si asciuga su una tela. Metti che fa caldo ti cola tutto, un colpo di vento invece te lo fa seccare. Il caldo e il vento sono eventi casuali, eppure quando arrivano incolpiamo il destino.

Il mio evento casuale fu un incidente stradale. Persi completamente l’uso della mano destra: non avrei potuto più dipingere.

Cos’è la mente senza il braccio? é una finestra di prigione che da sul paradiso.

Ero morto senza essere deceduto. Respiravo eppure non c’era senso in quel sottrarre aria agli altri esseri viventi. Respirare potrebbe essere considerato un atto egoistico se non fosse che c’è abbastanza aria per tutti.

Da tempo stavo pensando all’ipotesi del suicidio. La vita senz’arte non aveva senso per me.

Poi per fortuna arrivò la Consapevolezza del Ragno.

 

Storia del Ragno

 

Per distrarmi un po’ da quella sofferenza avevo preso ad andare spesso al cinema. Una volta entrai nei bagni e, mentre mi apprestavo a fare i miei bisogni, notai un ragno proprio sotto la sporgenza interna del gabinetto.

Era un ragnetto da niente, di quelli piccoli e veloci. Aveva fatto la sua ragnatela sotto un foro del getto di scarico. Tirai l’acqua e lo vidi lottare contro la corrente. L’ebbe vinta, così me ne uscii dal bagno sorridendo.

Il giorno successivo non avevo voglia di andare al cinema, però morivo dalla curiosità sul destino di quel ragnetto.

Lo ritrovai sempre lì, sotto il getto dello scarico. Vivo nonostante i tanti clienti che usufruivano del bagno.

Sadicamente tirai lo sciacquone, solo per vedere se ancora una volta il mio eroe riuscisse a spuntarla. Ci riuscì.

Aspettai una settimana, poi tornai in quel cinema ormai totalmente disinteressato alla programmazione dei film.

Lui era lì. Imperterrito marcava il suo territorio con sottili fili di ragnatela. Azionai più volte lo scarico ma lui, lottando con tutto se stesso, riusciva sempre a sopravvivere.

Allora decisi che avrei fatto qualcosa per aiutarlo. Presi un pezzettino di carta igienica, ci feci salire sopra il ragno e lo andai a depositare in un angolo polveroso del bagno. Lì nessuno mai l’avrebbe disturbato.

Avrebbe potuto costruire in santa pace la sua ragnatela senza preoccuparsi di dover sopravvivere.

Tornai il giorno seguente per vedere come si era sistemato il mio nuovo amico, ma ad aspettarmi trovai un’agghiacciante sorpresa: il ragno era morto, zampe all’aria.

Quasi mi sentii un assassino. Eppure io volevo solo aiutarlo, volevo dargli una vita priva di sofferenze.

Il bello della vita è che tra i suoi requisiti fondamentali c’è proprio la sofferenza. Nessuna vita è mai

eternamente felice, anzi, per gran parte del tempo si soffre. A voler trovare un lato positivo alla sofferenza si potrebbe dire che aiuta ad apprezzare di più la felicità bella fregatura.

E’ come dire che per apprezzare bene lo zucchero si deve assaggiare tanto sale.

Ma sale e zucchero sono gusti. Anche felicità e tristezza sono gusti, con un po’ di fortuna si può avere una vita condita con le giuste dosi di entrambi.

Il ragno mi fece capire che la vita è un lottare costantemente contro qualcosa. Che sia lo sciacquone del cesso, un ictus al braccio o qualsiasi altra cosa non ha importanza. L’importante è lottare.

La pittura l’avrei apprezzata ancora di più se mi fosse costata fatica. Ne avrei goduto non solo grazie al mio talento, ma anche grazie alle difficoltà incontrate per riuscire ad esprimere la mia arte.

Il bello delle braccia è che sono due.

Così divenni il più felice pittore mancino della storia.

La felicità si costruisce, come una ragnatela; non si ottiene di botto: quella è la fortuna.

Ricordatevi di non spostare mai un ragno dal luogo o dal modo in cui ha scelto di vivere. E se facessero lo stesso con voi? La felicità è un punto di vista.

 

(Dedicato a Flora, un angelo volato in paradiso proprio mentre io stato scrivendo queste ultime righe)

 

di Raffaele Montesano –  IX classificato, Sez. Racconti;  All rights reserved

 

Nota biografica dell’autore:

Scrive da diversi anni. Ha iniziato pubblicando poesie su riviste specializzate e su antologie di autori vari. A

settembre 2011 è uscito il suo primo libro intitolato “Notti d’inchiostro”, dedicato agli stili di scrittura dei

miei autori preferiti. Attualmente sta lavorando al suo secondo romanzo “Nudo d’autore” che spera di

pubblicare entro l’anno.


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