Magazine Diario personale

Racconto di Natale /6

Da Icalamari @frperinelli
(un racconto di Francesca Perinelli ©2012)

[segue / leggi dall'inizio]

jbaker

C’è che quando dormi in un letto che non è il tuo, a parte il caso della camera d’albergo, non te la senti di approfittartene più di tanto. Insomma, fuori era giorno, vedevo che qualche rettangolino luminoso si disegnava sulle pareti opposte alla finestra. Chissà che ora era. Ma in quella stanza non c’erano orologi. Misi mano al cellulare e intanto cercai qualcosa da guardare per distrarmi, attendendo la trafila dell’accensione. Mhm, mhm. Pareti quasi nude, d’altra parte lì ci si veniva per stirare. Giusto quei tre quadretti appesi: una natura morta macchiaiola, una geometria astratta in toni freddi, una composizione anonima, che avrei definito… sì, cubista. Da Picasso e Braque in poi, la brutta fama delle scatolette si era completamente rovesciata. Cubismo diventò sinonimo di libertà creativa, scoperta della quarta dimensione, un -ismo acculturato, e si fece sempre più algido e cerebrale. Questa era la nuova formula del reale, les papier collés, i culi spigolosi. Che ne faceva del cubismo nonna? Sono convinta che sapesse benissimo cosa fosse. Che quel movimento era legato alla relatività di Einstein per la stessa legge del caso che lo univa ancora oggi al termine “cubista” (nessuno spigolo in quei corpi, eh), oppure anche a “cubano”. Altro che scientismo, altro che cerebralità. Anche Henry Miller, per esempio, sapeva di cosa parlava quando curò la prefazione a Les Illuminations di Léger. Cubismo, cubiste, Cuba, Tropico del Cancro. Josephine Baker e le sue banane. Cubiste pure loro, sì. Al tropico chissà che caldo, a ballare coperta da tutte quelle banane. Uh… Ma che caldo anche a restare ferma dentro al letto e pensare a tutto questo.

Ah, ecco, il telefono era acceso, segnava già le otto.

Odore di caffé. Prima della prima sigaretta, il primo e l’unico caffé nella giornata di mia nonna. Che per portarmene una tazzina impiegò un tempo lunghissimo, durante il quale riuscii a sapere il numero dei gradini della scala che saliva a fatica, contando i tintinnii della porcellana in bilico. Ci teneva a me, e, certo teneva altrettanto a dimostrarsi ancora autosufficiente.

- Sveglia, che tra poco arriva il tuo amico capellone.

- Chi, Lupo? – Mi stupii.

- Sì, lui. Agenore. Gli ho detto di aggiustarmi il rubinetto che perde.

- Ma va?

Appena il tempo di darmi una lavata e di infilarmi di nuovo sotto le coperte, Lupo fu puntualissimo. Udii da sotto la sua voce che diceva:

- Andiamo a dare un’occhiata all’ammalata.

Mi ritrovai a sorridere senza saperlo nascondere. Quando attraversò la soglia della stanza, si mise a sedere in terra, a gambe incrociate. Portando il viso all’altezza del mio.

- Che hai fatto ai capelli? – Li aveva tutti pettinati all’indietro. Sembrava il garzone di un fornaio.

- Tua nonna me l’ha imposto. Sto tanto male?

- Per niente. Hai l’aria del bravo ragazzo.

- Io sono un bravo ragazzo.

Si alzò aggiungendo:

- Vado a dare una mano a tua nonna. – E, senza più guardarmi in faccia, si voltò e mi lasciò da sola. Sentii la mia vecchietta usare con lui un tono docile, dargli indicazioni e consigli, offrirgli più di una tazzina di caffè.

Dopo il rubinetto, fu la volta della tapparella che stava collassando. Quella fu una faticaccia. Andava capito come funzionava tutto il sistema, prima. Mi alzai per dare un’occhiata dalla balaustra. La scatola in cartongesso stava appoggiata a terra, contro il muro. Lupo invece era arrampicato sulla scala e reggeva con difficoltà l’avvolgibile. Mia nonna protendeva le braccia verso di lui come se  le spettasse salvarlo in caso di caduta. Era una scena esilarante. Mi ritirai in punta di piedi perché non reggevo la tensione. E perché temevo di scoppiare a ridere. La cosa fu conclusa in meno di mezz’ora, quindi arrivò il momento di fare la spesa. Nonna preparò le buste, si infilò il cappotto e uscì, raccomandando a Lupo di vegliare sulla nipote influenzata.

- Allora, come ti senti?

- Credo di avere ancora la febbre, ho freddo.

- Fai sentire.

Per tutto il tempo che Lupo era rimasto in casa, il cuore mi si era come espanso in tutto il corpo. La mia felicità aveva preso un’evidenza fisica. Spostai senza timore la sua mano dalla fronte alla mia bocca e da questa allo sterno, che si alzava e abbassava velocemente. Lupo non disse niente, si infilò tutto vestito nel letto e cominciò a baciarmi.

Facemmo l’amore lentissimamente, guardandoci negli occhi. Venimmo insieme, a lungo e silenziosamente. Silenziosamente restammo abbracciati. Baciando, quando riprendevamo fiato dall’apnea dello stupore, ogni punto alla portata delle nostre bocche. Veniva naturale, anche se ora sembra una cosa eccentrica: io mi coglievo vivere nel presente. Non avevo mai fatto esperienza prima di allora, che io ricordassi, di tanta consapevolezza. Di me e dell’uomo fermo e delicato che mi stringeva a sé.

[continua]


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