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Raffaele Viviani, lo scugnizzo. Ritratto d’un enorme artista napoletano

Creato il 22 marzo 2015 da Vesuviolive

Raffaele Viviani

Raffaele Viviani (il vero cognome era però Viviano) è un autore napoletano nato a Castellammare di Stabia il 10 Gennaio 1888, e morto a Napoli il 22 Marzo 1950, in una famiglia dagli scarsi mezzi economici. Il padre, anch’egli di nome Raffaele, era un costumista teatrale che a pochi anni dalla nascita del figlio si trasferì a Napoli, a causa dei guai economici nei quali purtroppo cadde, e nella storica capitale del teatro diede vita ad alcuni teatrini, i “Masaniello”, dove l’infante Raffaele, detto Papiluccio dai familiari, apprese le basi del teatro. Soldi per frequentare la scuola non ce n’erano, e fino agli undici, dodici anni, Papiluccio era un vivace scugnizzo che correva e combinava guai per le strade i vicarielli partenopei, tuttavia nella sua personalità era insito quel germe di sensibilità che lo avrebbe portato a diventare uno dei massimi autori del Novecento, a livello internazionale. Papiluccio voleva raccontare i mestieri poveri, l’arte di arrangiarsi, le commedie e le tragedie che il popolo viveva tutti i giorni, ma per fare ciò capì non bastava essere uno di loro, era necessario studiare e al contempo mantenere quella semplicità e quella genuinità che solo il popolo sa avere. Con la prematura morte di suo padre il teatro, da puro svago che gli permetteva di avere qualche spicciolo in tasca, divenne un vero e proprio lavoro attraverso cui doveva aiutare la madre e i fratelli a sopravvivere.

Viviani, che fin dall’età di quattro e anni e mezzo cantava con successo nei teatri popolari napoletani, da artista vero sapeva che per per emergere doveva offrire qualcosa che gli altri non avevano, dunque introdusse nei propri spettacoli delle canzoni le cui parole erano scritte da lui, mentre le musiche le “componeva” in questo modo: poiché non sapeva suonare né leggere e scrivere gli spartiti, faceva nascere la musica nella propria testa e la fischiettava a un maestro di pianoforte, il quale la “traduceva” con il suo strumento e la trascriveva. Non fu questo l’unico colpo di genio di Raffaele Viviani, e dato che, come detto prima, la sua intenzione era quella di portare in scena la verità, la miseria, l’ingiustizia, marchiò le sue sceneggiature con una lingua scarna, aspra, tagliente, ben lontana da quello stile che faceva del teatro colto un’esclusiva delle classi più agiate, riuscendo perciò a coniugare contenuti molto profondi ad una possibilità di fruibilità da parte di tutti, anche attraverso la previsione di vari livelli di interpretazione delle opere.

Raffele Viviani in camerino

Il successo di Raffaele Viviani travalicò presto i confini napoletani, per affermarsi in tutta Italia. L’avvento del fascismo, però, comportò un declino per la sua compagnia, perché il regime non apprezzava il nostro autore: la propaganda doveva far passare il messaggio che tutto andava bene, che c’erano grandi speranze e che, finalmente, dopo decenni dall’Unità d’Italia era giunto il momento del compimento del destino della nazione, il quale doveva passare pure dalla soppressione della Lingua Napoletana quale strumento per fare dell’Arte. Non fu il solo autore ostacolato, la stessa sorte capitò per esempio anche a Eduardo De Filippo (che ruppe col fratello Peppino dopo che quest’ultimo, durante l’ennesimo litigio, per sfotterlo lo chiamò “Duce”), e fu per tale motivo che grandissimi poeti come Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo furono considerati una sorta di mezzi poeti, incompiuti, perché si esprimevano nella loro lingua e non in quella ufficiale. Le conseguenze di questa posizione del regime fascista le vediamo ancora oggi, quando numerose persone equiparano il parlare in Napoletano a “parlare male”, a essere cafoni, dimenticando il fatto che l’arte in idioma partenopeo è tra quelle più apprezzate al mondo: non è un caso che ‘O Sole mio sia la canzone più conosciuta e cantata in assoluto, in ogni nazione sulla Terra.

Durante il Ventennio, Viviani per far sopravvivere la compagnia dovette adeguarsi, e allora rispolverò le opere dei grandi autori del passato, come Antonio Petito o Eduardo Scarpetta. Ciò gli consentiva di continuare la produzione personale, ma ormai era fuori dai principali teatri, poiché portava “in giro le vergogne dell’Italia”. La plebe però, il suo vero e autentico pubblico, la sua musa, non lo abbandonò mai e affollava le sale i cui palchi erano calcati da Papiluccio. Terminata la Seconda Guerra Mondiale il successo di prima non tornò, perché la borghesia e la nuova classe dirigente, seppur scopertesi improvvisamente antifasciste, mantennero quelle strutture mentali proprie del regime, eredità comunque di un’idea secondo cui l’Italia unita doveva farsi azzerando le differenze e concentrare la gestione dell’Arte nelle mani di pochi. Il Teatro Napoletano però, come la canzone e il cinema, riuscì a sopravvivere ed essere fecondo – Raffaele Viviani è solo uno dei tanti esempi che è possibile fare – perché l’Arte, per un artista, è una necessità che non si può manipolare: se avviene, o se si accetta, una manipolazione non siamo di fronte ad un artista, ma a un semplice commerciante.

L’ultimo periodo della propria vita Viviani lo dedicò a sistemare le proprie opere, che voleva pubblicare perché gli sopravvivessero: nemmeno a dirlo, i maggiori editori nazionali rifiutarono la pubblicazione, la quale avvenne postuma ad opera di un attore che aveva lavorato con lui, Ettore Novi. In basso, potete ascoltare La Rumba degli scugnizzi, una delle più famosi canzoni di Raffaele Viviani, interpretata dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare.

Questo articolo fa parte della rubrica “I figli illustri di Napoli“.


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