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Recensione: Chi perde paga, di Stephen King

Creato il 04 novembre 2015 da Mik_94
Questa vicenda non è iniziata con il ritrovamento del baule, ma con l'uomo che l'ha sepolto. E quando sarai tentato di incolparti per quanto successo, ricordati del tormentone di Jimmy Gold: sono tutte stronzate
Recensione: Chi perde paga, di Stephen King Titolo: Chi perde paga Autore: Stephen King Editore: Sperling Kupfer Prezzo: 19,90 Numero di pagine: 470 Sinossi: “Svegliati, genio.” Il genio è John Rothstein, scrittore osannato dalla critica e amato dal pubblico - reso immortale dal suo personaggio feticcio Jimmy Gold - che però non pubblica più da vent'anni. L'uomo che lo apostrofa è Morris Bellamy, il suo fan più accanito, piombato a casa sua nel cuore della notte, furibondo non solo perché Rothstein ha smesso di scrivere, ma perché ha fatto finire malissimo il suo adorato Jimmy. Bellamy è venuto a rapinarlo, ma soprattutto a vendicarsi. E così, una volta estorta la combinazione della cassaforte al vecchio autore, si libera di lui facendogli saltare l'illustre cervello. Non sa ancora che oltre ai soldi (tantissimi soldi), John Rothstein nasconde un tesoro ben più prezioso: decine di taccuini con gli appunti per un nuovo romanzo. E non sa che passeranno trent'anni prima che possa recuperarli. A quel punto, però, dovrà fare i conti con Bill Hodges, il detective in pensione eroe melanconico di "Mr. Mercedes", e i suoi inseparabili aiutanti Holly Gibney e Jerome Robinson. Come in "Misery non deve morire", King mette in scena l'ossessione di un lettore per il suo scrittore, un'ossessione spinta fino al limite della follia e raccontata con ritmo serratissimo. "Chi perde paga" è il secondo romanzo della trilogia iniziata con "Mr. Mercedes", nel quale l'autore tocca un tema a lui caro, quello del potere della letteratura sulla vita di ogni giorno, nel bene e nel male.                                                   La recensione Recensione: Chi perde paga, di Stephen King Quelle lacrime, si accorge Pete, confermano il potere profondo della fantasia. Ecco come mai migliaia di persone sono scoppiate in singhiozzi dopo aver appreso che Charles Dickens era morto di ictus. Ecco come mai uno sconosciuto per decenni ha messo una rosa sulla tomba di Edgar Allan Poe ogni 19 gennaio. Ecco come mai Pete odierebbe il suo avversario anche se non stesse puntando un'arma contro il petto tremante della sorelline inerme. Ha ucciso un grande scrittore, e perché? Si è macchiato di quel gesto sulla base di una ferma convinzione: che un'opera letteraria sia più importante del suo creatore.”  A volte, con i libri si parla. A volte, con i libri ci si arrabbia. Cosa non è possibile, con un romanzo tra le mani, nel momento giusto o in quello sbagliato? Ci sono giorni, infatti, in cui sei in vena del lieto fine – e così personaggi ribelli si accasano, perché è giunta l'ora di crescere – e giorni in cui i puntini sulle i e le conclusioni felici, per te che hai il fuoco dentro, non fanno al caso tuo. E così si sbraita, si impreca e si prende a schiaffi quel tomo – qualcosa di immobile, inanimato, anche se sotto la superficie ingannevole gorgogliano le idee e le ispirazioni, in segreto – che ci dà risposte che non vorremmo sentire. A volte, per i libri si ruba. Spesso, si uccide. Trovarsi davanti l'autore che ci ha deluso – dunque un autore diverso da zio Steve, sempre in forma smagliante e prezioso custode della nostra fiducia – e fargli saltare la testa, durante una rapina finita in tragedia. In ballo, poche migliaia di dollari e soprattutto pile e pile di taccuini autografi. John Rothstein, autore di una trilogia che ha fatto la storia della letteratura americana, sgarbato e misantropo, finisce ammazzato per mano del suo fan numero uno. Morris Bellamy – appena uscito dal riformatorio e presto di nuovo dietro le sbarre, per una violenta notte di misfatti – non ha perdonato a Rothstein il fatto che Jimmy Gold, personaggio iconico, emblema di gioventù e ribellione, si sia poi arreso, nell'ultimo capitolo, al dio denaro. L'eroe che ha salvato Bellamy dalla solitudine, ma che già una volta è stato causa della sua sfortuna, si è piegato alla logica borghese; ma Morris, senza scrupoli, al contrario, non si piega e non si spezza. Resterà in carcere per quasi quarant'anni. A supportarlo, il chiodo fisso di recuperare i taccuini – sepolti in un baule, nei pressi di Sycamore Street – e di scoprire finalmente cosa sia stato di Jimmy Gold, in manoscritti inediti tenuti sotto chiave. Ma, nel frattempo, qualcuno ha scoperto il suo tesoro sepolto in un forziere pirata, all'ombra degli alberi: Peter Saubers, un adolescente con il pallino dei romanzi d'avventura e una famiglia in difficoltà, che ha altri piani per quella fortuna ritrovata.  Recensione: Chi perde paga, di Stephen King Banconote fruscianti con cui aiutare papà – uno dei feriti del City Center – e le memorie di un autore che, pian piano, imparerà a stimare. Quando il pericolo diventerà strisciante, tra librai bugiardi e assassini a piede libero, qualcuno – magari il caso, incarnatosi in una premurosa e preoccupatissima sorella minore – porterà il giovane Peter a incrociare la strada del nostro caro Bill Hodges, detective in pensione che – affiancato da Holly, disfunzionale ma dalle mille risorse, e da un Jerome a casa per le vacanze – ha perso tanti chili, si è finalmente abituato all'ingombro del pacemaker e ha fondato, complice il successo dell'indagine passata, la prestigiosa Finders Keepers. Chi perde paga – titolo italiano insensato, a onore del vero – è il secondo volume di una trilogia iniziata lo scorso anno, in questo stesso periodo, e subito pronta a fare un salto sul piccolo schermo, da quel che si dice. Un nuovo e puntuale capitolo, prevedibilmente all'altezza delle aspettative e per nulla inferiore a quel Mr. Mercedes che l'ha preceduto e che ricompare, sottoforma di echi e rimandi, tra le pagine di una storia tutta nuova ma non troppo: come la precedente, è firmata infatti da un King leggerissimo, citazionista e, al solito, un po' nostalgico. Immenso narratore, anche nell'ambito di un giallo essenziale nello snodo e abbastanza articolato nell'intreccio: veloce e giovanile, fresco, se non fosse per la classica attenzione ai dettagli – non c'è un personaggio senza sfumature – e per capitoli brevi e scattanti, in cui il narratore, esterno ed onnisciente, si diverte un mondo con l'ironia tragica e i rimandi, cosicché i pezzi del puzzle, di pari passo, s'incastrino per magia.  Recensione: Chi perde paga, di Stephen King Chi perde paga, infatti, racconta una storia di ossessione e criminalità dilatata in quasi mezzo secolo. E, nonostante le cinquecento pagine, fila liscio come l'olio, pur essendo ampiamente diffusa, ormai, la leggenda metropolitana che vuole King prolisso e stanco. Ma quando mai. A mancare, forse, un po' di cuore in più. Quel brivido non di terrore, ma di emozione, così presente anche nell'eppure deludente Revival: lento e lungo come ogni tanto gli si rimprovera, ma profondo nei sentimenti. In Chi perde paga non ci sono spazi bianchi da riempire o tempo da perdere: cinematografica caccia al tesoro, in cui scorgiamo ancora una volta un King divertito, al passo coi tempi, che prende fiato tra un capolavoro e l'altro dei suoi, pensando alla frenesia dei thriller motori che mancavano nella ricca sua biografia, al rapporto con i suoi affezionati lettori e al fascino indiscreto dei libri che parlano di libri. Se lo svolgimento è semplice – nonostante esempi di inaudita violenza, si sa sin da subito che i buoni vinceranno e che i cattivi pagheranno il fio delle loro colpe – a essere ingarbugliata è la rete narrativa: i personaggi, nuovi e vecchi che siano, sono come le parentesi della solita equazione che tiro in ballo quando parlo di thriller – prima le graffe, poi le quadre e, in fine, le tonde – e Hodges, annunciato protagonista, paradossalmente compare dopo qualcosa come duecento pagine. C'è tanto tempo per legarsi al guastafeste Peter – come se, nel mio caso, fosse necessario: quel giovane lettore, curioso e di belle speranze, vi ricorderà qualcuno, chissà – e, soprattutto, al pirata Bellamy. Più che antagonista da temere, anti eroe dalla fedina penale sporca, fan iracondo che non accetta un no come risposta, che – come il passato Mr. Mercedes, sbadato e ironico – fa una specie di simpatia con le tante sfortune che colleziona – vittima per eccellenza, nelle docce del carcere, al gioco della saponetta e dotato di un imprevedibile talento nella stesura di lettere su commissione – e le smodate passioni che rappresenta. Più inquietante, invece, il cattivo che ormai conosciamo – messo fuori gioco dal Castigamatti di Holly – che, immobile, con lo sguardo perso nel vuoto, siede sulla poltroncina a fiori di un ospedale psichiatrico in cui, da quando c'è quel famigerato ospite, succedono strane cose... In Mr. Mercedes c'erano macchine infernali e autisti che indossavano maschere da clown; in Chi perde paga, invece, personaggi di fantasia che non dovrebbero morire, lupi cattivi che non smettono di mordere, bambini in cerca di avventure – sui binari delle ferrovie, sulle sponde dei fiumi. Dèja vu. Personaggi che sono quel che leggono o che leggono quel che sono. Colpa di certi libri; colpe che King, giovane dentro, e Chi perde paga, disimpegnato, senz'altro non hanno sulla coscienza. Perché saranno sì tutte stronzate, come ripete a ogni piè sospinto Jimmy Gold, ma ci sono eccezioni. Il mio voto: ★★★★ Il mio consiglio musicale: The Black Keys – Lonely Boy

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