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Recensione Dizionario delle cose perdute di Francesco Guccini

Creato il 12 marzo 2012 da Masedomani @ma_se_domani

Copertina Dizionario delle cose perdute di Francesco Guccini

Credo di aver impilato nella mia libreria un buon 85 per cento della produzione editoriale di e su Francesco Guccini. Faccio quindi un po’ fatica a ricostruire la fonte, ma ricordo distintamente un intervento del cantautore di Pavana che ricordava come fosse stata complicata (ma molto soddisfacente) la collaborazione con Lucio Dalla che diede vita ad uno splendido pezzo intitolato “Aemilia”. Il punto era che Dalla risultava molto più portato ad immagini che si riferissero al futuro, a differenza di un Guccini decisamente più a suo agio con le tematiche e le emozioni del ricordo.

Si tratta di un intervento che mi e’ tornato alla memoria durante la lettura di “Dizionario delle cose perdute”, un volume agile – come e’ nelle intenzioni della collana Le Libellule – in cui Guccini ci accompagna nella scoperta di oggetti, abitudini, espressioni del passato, paragonandoli ai giorni attuali con l’irresistibile ironia che lo contraddistingue anche sul palco.

Dal racconto dei più diffusi giochi da strada (e quanta differenza con i pomeriggi autistici alla PlayStation…) al ricordo di un periodo in cui il caffè d’orzo era un surrugato e non una bevanda cool da chiedere al bancone, fino alla riscoperta di fotografie ingiallite nel tempo in cui tutti (tutti!) i bambini erano costretti ad esibire una orripilante acconciatura a banana, Guccini riesce nell’impresa di farsi leggere con leggerezza e divertimento, senza mai scivolare nella retorica dei “bei vecchi tempi”. Il gap generazionale è certamente rilevante, ma sono debitore a questo volume per almeno due motivi: l’aver riportato alla mia memoria i gloriosi tempi del duplex (una linea telefonica condivisa fra due appartamenti per risparmiare sulle spese di impianto, causa principale di scontri condominiali tipo Tora Tora Tora) e l’aver finalmente svelato la sigla STIPEL che campeggia sul tombino che calpesto ogni mattina in viale Monza (per la cronaca, Società Telefonica Interregionale Piemontese e Lombarda).

Qualche anno fa – cavoli, sono quasi dieci – avevo preso a frequentare una osteria milanese di terz’ordine: uno di quei locali che ti aspetteresti di trovare nella provincia più profonda, con tavoli di legno inciso dal tempo, vino rigorosamente sfuso ed età anagrafica media degli avventori vicina alle tre cifre. Facile intuire come io sia diventato la mascotte del locale in meno di due sere, non facevo in tempo ad accomodarmi ed ecco partire la corsa (invero molto rallentata) alla sedia di fronte alla mia. Una volta appurata la mia origine triestina le chiacchierate si catalizzavano spesso su due argomenti: una partita storica con Nereo Rocco in panchina e il servizio militare svolto nel profondo nord-est. Io mi beavo di quei racconti e di quelle esperienze, scoprivo un’Italia immensamente differente e immaginavo luoghi, momenti e situazioni, quasi cullato da quelle parole.

Il “Dizionario delle cose perdute” mi ha offerto le stesse sensazioni, la stessa curiosità ed una identica tenerezza. Accompagnarne la lettura con un bel bianco corposo è stato quasi inevitabile.


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