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Recensione: "I Origins"

Creato il 19 gennaio 2016 da Giuseppe Armellini
Recensione: OriginsGli occhi come specchio dell'anima.
O come dimostrazione del contrario, che l'anima non può esistere.
Tra scienza e spiritualità un magnifico film sul destino, sulle coincidenze, sulle porte chiuse e sulla luce che filtra.
Questo film fa parte de La Promessa 2016 (1/15)

presenti spoiler
Gli occhi sono lo specchio dell'anima.
E io mica lo so chi l'ha detto, magari è qualcosa di orale che si perde nella notte dei tempi, magari l'ha tirata fuori un santone, oppure uno scrittore, oppure semplicemente è una cosa talmente ovvia ed evidente che ogni tanto si dice, come si dicono le cose ovvie ed evidenti.
Io non so chi l'ha detto ma credo fortemente che sia vera sta cosa, io che solo dagli occhi riesco a capire, o provo a riuscire a capire, se la persona che ho davanti è un'anima bella, se è sincera, se è vera, se ha sofferto, persino se è intelligente.
Cavolo, eppure son così piccoli gli occhi, e così simili gli uni agli altri, colori a parte.
Com'è possibile in così pochi cm quadrati (sempre se a cm quadrati arriviamo) riuscire a notare, intravedere, cogliere, sentire un caleidoscopio così vasto di percezioni e sensazioni?
Cavolo sì, se l'anima esiste dev'essere per forza in quelle iridi, perchè c'è più roba nascosta dentro un occhio che in tutto il resto del corpo messo assieme,
Ecco, in realtà I Origins, superba opera seconda di uno che aveva già tirato fuori una quasi superba opera prima, Mike Cahill (più giovane de me mortacci sua), dicevo I Origins non parla di occhi nella maniera lombrosiana in cui ne ho parlato finora io, insomma, non si interroga sul fatto se, osservandoli, gli occhi dico, noi possiamo capire che tipo di persona abbiamo davanti ma se possibile va ancora oltre.
E lo fa da due punti di vista.
Il primo è quello di un giovane genio, lo scienziato Ian (un formidabile Michael Pitt), uno che proprio attraverso gli occhi, all'evoluzione degli stessi, vuole dimostrare scientificamente l'impossibilità dell'esistenza di Dio.
L'altro punto di vista, opposto, è quello di chi, come Sofi, la ragazza di Ian, crede appunto che gli occhi siano una delle finestre su qualcosa che va oltre l'uomo.
Buffo no? entrambe le parti usano la medesima cosa, gli occhi, per dimostrare tesi contrapposte.
Ian è uno scienziato, e come tutti gli scienziati sta in una stanza chiusa piena di oggetti, di verità, di fatti incontestabili.
"Guarda quella porta" gli dice Sofi "vedi che filtra un pò di luce?"
"Sì" le risponde Ian.
"Tu hai paura di far entrare quella luce, tu hai paura di capire cosa possa essere quella luce, tu hai paura di uscire fuori dalla stanza"
Eppure a Ian accadono tanti fatti strani. Coincidenze, certo, perchè le coincidenze accadono per forza insomma, un mondo in cui non accadessero mai coincidenze rappresentertebbe una coincidenza ancora più irreale.
Eppure Ian ogni tanto quando accadono ste cose un pò rimane stordito, sta lì e pensa, tutti sti 11 ad esempio, o.k, coincidenze, ma una sbirciatina su quella luce che filtra dalla porta gli viene da darla anche a lui, state sicuri.
Fatto sta che Sofi prova ad insegnargli la spiritualità, che non necessariamente è religione eh.
Ma niente, Ian non sembra cedere, anzi, la prende per ragazzina.
Un giorno la tira a sè in una situazione che apparentemente sembra abbastanza tranquilla.
La tira a sè troppo tardi però, troppo tardi.
Il dolore è insostenibile e a salvarlo c'è di nuovo la scienza, antropomorfizzata sotto forma di Karen, la sua bella assistente.
Karen è geniale quanto lui, una straordinaria ricercatrice.
Ma è donna, adesso pure mamma, e se una è donna e mamma la porta di cui parlavamo sopra, quella ai confini della stanza della scienza, è più pronta a spalancarla.
Ah, o.k, sto raccontando tutto il film, non che faccia male eh, sapete che degli spoiler interessa nulla, ma forse è meglio fermarsi un pochino per dire due cose più tecniche.
Lasciamo quindi Ian e Karen col loro bambino.
Cahill è un grandissimo regista. In soli due film ha dimostrato di curare gli aspetti psicologici dei propri personaggi in maniera talmente maniacale che sì, quando si parla di fantascienza esistenziale ormai il suo nome deve finire in cima alla lista.
In più è un regista che non ama spiegare, i suoi film non sono puzzle da ricomporre, ma un insieme di sensazioni, indizi, silenzi e segni che lo spettatore deve riuscire a far suoi.
Basta prendere i due finali, quello di Another Earth e questo.
Ha cuore, mano, poesia. E sa anche essere coraggioso nel mostrare la tragedia e il dolore.
Lei, la fantastica Berges-Frisby me la ritrovo dopo Alaska in un ruolo paurosamente simile, così simile che il sospetto che Cupellini abbia visto I Origins e scelto lei apposta per quel ruolo è assolutamente fondato.
Anche qui è modella, anche qui è una ragazza capace di innamorarsi in un amen, anche qui del suo passato sappiamo quasi nulla. Addirittura il primo incontro con Ian avviene in un luogo e con modalità praticamente identiche a quelle che accadranno poi con Germano.
Ma torniamo a Ian e Karen.
C'è una scena prima, bellissima, quella in cui lei gli dice di aver finalmente trovato quello che cercavano.
La loro emozione e gioia è infinita.
Ecco, scena banale apparentemente, quando in realtà dimostra come a volte i due mondi, quello freddo e insensibile della scienza e quello caldo e confuso delle emozioni, si possano fondere.
L'emozione della scienza, che bella cosa.
Del resto vale anche il contrario se è vero che alla chimica si paragona a volte l'amore.
Il film cambia.
Perchè alla giovane coppia di scienziati accadono cose che con i loro studi sembrano non appartenere.
"Ci deve essere una spiegazione" dice più volte nel film Ian.
E per cercarla viaggia, viaggia tanto.
Fino ad arrivare in India.
Gli occhi sono come il Dna pensava, unici e irripetibili.
Eppure no, eppure sembrano essere ripetibili, avere copie.
Non solo sembrano ripetibili ma anche esserlo in maniera cronologica, non contemporanea.
Ian vacilla quando vede quella meraviglia di bimba guardare gli occhi sul cartellone, i suoi stessi occhi. E Cahill sa benissimo che questa è la scena madre e per raccontarcela usa il movimento di macchina più bello del film.
Però Ian è uno scienziato e servono test, le sensazioni sono aria fritta.
Il test ci sarà ma non avrà gli effetti sperati.
O forse sì, il risultato è quello che Ian ha sempre sperato.
Perchè la paura di aprire totalmente la porta della camera è troppo forte.
Si torna a casa, si prende l'ascensore.
Ma Cahill non è d'accordo, Cahill vuole regalarci un finale meraviglioso.
E' sempre bello scendere le scale con una bimba in braccio, una bimba così bella poi.
Ma non è da tutti scendere le scale pensando, forse, di tenere in braccio il senso della vita.

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