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Recensione. JACK, il film del concorso più amato (finora) dal pubblico

Creato il 10 febbraio 2014 da Luigilocatelli

20142060_3Jack, regia di Edward Berger. Con Ivo Pietzcker, Georg Arms, Luise Heyer, Vincent Redetzki, Jakob Matschenz, Nele Mueller-Stöfen. Presentato in Concorso. Voto tra il 6 e il 7.
20142060_120142060_2Una di quelle storie neodickensiane, di bambini soli, abbandonati o semitali, costretti ad arrangiarsi per sopravvivere e calati nelle feroci metropoli contemporanee dove il pane non manca, abbondano le assistenze sociali, ma latitano quelle cose chiamate affetti, e tutto è duro e gelido, intorno e dentro. Padri del genere sono naturalmente i Dardenne Brothers, che hanno fissato l’indelebile e ineludibile paradigma con cui tutti gli autori che si cimentino con storie analoghe son costrette a misurarsi e fare i conti. Vale anche pqer questo Jack, che non mi ha fatto impazzire, ma ha convinto e commosso il pubblico, tant’è che al FriedrichPalast mi han detto esserci stato un applsuso di dodici minuti. Candidato a questo punto ai premi, anche se un paio di anni fa proprio qui a Baerlino si era già visto un film molto simile nei temi e nei contents a Jack, però molto meglio, meno didascalico, meno programmatico, più impietoso e dunque lancinante, di questo, Sister della svizzera Ursula Meier. Stavolta siamo a Berlino, in una Berlino di periferie, stazioni della U-Bahnhof ricoperte di graffiti (e par d’essere a Milano), dove non luccicano i cristalli di Potsdamerplatz, dove non ci sono le iridiscenze del Sony Center. Una metropoli anonima e seriale, scenario della storia di Jack, ragazzino mesto e assennato, con fratellino a carico, visto che la mamma single, giovane, belle e fatua e un po’ strafattona, è sempre persa dietro alla sua vita e ai suoi nuovi boyfriends. Lui è davvero il fratello maggiore, un quasi-padre per l’ancora troppo giovane Manuel. Ma sucederà un incidente in casa che indurrà il solito assistentato sociale o tribunae dei minori (dio mio, l’assistenza sociale è diventata la nuova occhiuta polizia che vigila sui costumi e la moralità) a intervenire, e Jack verrà sottratto alla madre, tenuto lontano dal’adorato Manuel semiaffidato a una zia, e messo in un istituto. Siamo dalle parti di un altro fondamnale film su ragazzini spersi nel mondo grande dei grandi, I 400 colpi di Truffaut, ma con un po’ meno di levità. Quel che segue è l’odissea di Jack che, uscito dal’istituto e ritrovato il fatellino, vaga per la città cercando la madre che non c’è. Sparita da casa senza lasciare traccia e un qualsiasi recapito, un numero di telefono. Niente. Andata via sull’onda probabile di un nuovo uomo.  Finché, dopo tante vagare, si arriva a un finale che stringe il cuore e, ebbene sì, fa metter mano ai kleenex. Bel film, onesto, benissimo girato con la solita macchina a mano che sta addosso a persone e cose. Quello che gli impedisce di scattare e di elevarsi a grande film è la sua programmacità, l’esemplarità della storia di Jack che si fa fin troppo faclmente parabola, racconto morale, spaccato socio-antropologico, monito. Anche una certa rigidità teutonica. Son limiti che non gli impediranno di vincere qualcosa e poi di fare il giro del mondo in parecchi festival e di farsi adottare dalla gente che va al cinema.


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