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Recensione “La Moglie Afghana. Non tutte le donne sono nate libere” di Fariba Nawa

Creato il 20 febbraio 2012 da Alessandraz @RedazioneDiario

Recensione “La Moglie Afghana. Non tutte le donne sono nate libere” di Fariba Nawa

Pubblicato da Francesca Rossi

Un libro inchiesta preciso e diretto come un pugno nello stomaco. Un saggio sul potere del traffico di droga in tutto il mondo, partendo dalla “casa madre”: l’Afghanistan. Un ritratto scottante della vita di uomini e donne che da quel traffico traggono il loro sostentamento. “La Moglie afghana” di Fariba Nawa è l’accorata denuncia di una donna afghana che vede il proprio Paese risucchiato nell’abisso mortale del narcotraffico
Titolo: La Moglie Af

Recensione “La Moglie Afghana. Non tutte le donne sono nate libere” di Fariba Nawa
ghana Autore: Fariba Nawa Casa editrice: Newton & Compton Pagine: 382 Prezzo: 9.90 euro Anno: gennaio 2012 Trama Fariba Nawa è una giornalista di origini afghane. Da piccola si è trasferita con la famiglia in America, e dopo 19 anni torna per la prima volta nella sua terra per conoscere il proprio popolo e riscoprire il sapore della sua infanzia. A Herat, sua città natale, la giornalista incontra il nonno, Baba Monshi, un intellettuale che è stato in prigione per le sue idee, giudicate troppo moderne. Il viaggio prosegue tra trafficanti, donne disposte a sacrificare la vita per far valere i propri diritti, giovani pusher, signori della droga, agenti infiltrati. Infine la giornalista incontra Darya, con la sua storia di tristezza e rassegnazione. Darya è una giovane "sposa dell'oppio", costretta dal padre, trafficante, a sposarsi con un signore della droga molto più vecchio di lei, che non parla nemmeno la sua lingua e ha già un'altra moglie e otto figli. Negli occhi intensi di quella bambina Fariba vede riflessa tutta la bellezza e la sofferenza delle donne afghane. In un libro a metà tra il romanzo e il reportage, Fariba Nawa ci racconta tutta la verità sul moderno Afghanistan, dilaniato da sanguinose lotte, conteso tra potenze straniere e lasciato in mano agli spietati signori dell'oppio.
RECENSIONE La droga è uno dei flagelli del nostro tempo, purtroppo lo sappiamo bene. Chissà quante volte ci sarà capitato di leggere o ascoltare storie che hanno per protagonista la mortale polvere bianca. Esistono campagne di prevenzione, ma le raccomandazioni, soprattutto nei confronti dei più giovani, non sono mai abbastanza. Ma cosa sappiamo davvero sull’origine della droga? Quanto ne sappiamo della sua produzione e della realtà di coloro che vivono sulla coltivazione ed il commercio dei narcotici illegali? Ancora troppo poco. Noi vediamo il risultato distruttivo e devastante che le droghe hanno sulle persone che le assumono, ma siamo lontani anni luce dalle motivazioni che spingono tanti esseri umani a “produrre la morte”. L’Afghanistan, purtroppo, è la madrepatria della coltivazione del papavero da cui si estrae l’oppio. Le cifre riportate dalla Nawa sulla coltivazione ed il traffico illecito sono agghiaccianti. Inoltre, questa nazione ha fondato gran parte della propria economia su questa pianta. Nel tempo si è creato un circolo vizioso per cui produrre e smerciare droga è il sistema più facile per fare soldi e, sempre più spesso, l’unico. Fariba Nawa, intraprendente e coraggiosa giornalista afghana trasferitasi con la famiglia negli Usa per sfuggire alla guerra, ci descrive il suo Paese natale con orgoglio, passione, ma anche con obiettività e razionalità. L’Afghanistan resta, per lei, la patria lontana in cui può ritornare solo da adulta, ma il suo grande amore verso quella terra non offusca il suo giudizio. La nostalgia palpita tra le sue parole, ma il dovere di cronista ha la meglio. 
Cosi Fariba inizia a raccontare la storia dell’Afghanistan tra Ottocento e Novecento, portando avanti tre fili narrativi che si intersecano l’uno con l’altro: il primo riguarda le vicende politico-sociali del Paese, dando rilievo all’occupazione sovietica, alle decisioni dei re, al ruolo dei mujaheddin e alla fase di dominio talebano; il secondo riguarda la storia della sua famiglia, che assiste impotente agli stravolgimenti della guerra ed è, infine, costretta a fuggire; ultimo ma non meno importante, il terzo filo narrativo è rappresentato dalla storia della produzione e del commercio di droga. Ciò che colpisce è la bravura dell’autrice nel raccontare il proprio Paese su questi tre piani narrativi, che sono inscindibili l’uno dall’altro. A tratti sembra che stia realizzando un arazzo dalla trama complessa, come quelli, stupendi, realizzati dalle donne afghane per sopravvivere. Fariba non esita ad intervista personalmente signori della guerra e trafficanti, qualche volta rischiando la vita in prima persona. Le persone che incontra hanno sempre qualcosa da nascondere. Difficilmente le loro parole rispecchiano la totale e pura verità. Le loro storie colpiscono dritto al cuore, ma sono soprattutto le storie delle donne a coinvolgere emotivamente il lettore. Le figure che ruotano attorno a Fariba vanno da un estremo all’altro: c’è la tossicomane che chiede l’elemosina per strada pur di acquistare una dose, le madri di famiglia, spesso vedove, che per sfamare la famiglia producono oppio nei loro campi, faticando curve sulle piante sotto il sole, le poliziotte che catturano gli spacciatori, le giovani vendute dalle famiglie per pagare debiti di droga.  In quest’ultimo caso rientra la toccante storia di Darya, la “moglie afghana” che dà il titolo al libro. La ragazza, figlia di un trafficante, è una “sposa dell’oppio”. Suo padre, infatti, l’ha venduta ad un signore della droga molto più anziano di lei e già sposato. Darya chiede aiuto a Fariba poiché vuole opporsi al matrimonio. L’autrice vede in lei l’emblema dell’Afghanistan violentato dalle guerre e martoriato dalla droga, che tenta a fatica di risollevarsi. Vede nella ribellione della bella fanciulla lo scatto di volontà di un Paese schiacciato per troppo tempo e delle sue donne ancora vilipese. L’osservazione cruda di tutti questi eventi spinge Fariba Nawa ad indagare più a fondo, cercando di capire cosa davvero ha fatto l’Occidente per l’Afghanistan: attraverso un’attenta analisi delle misure antidroga internazionali, la giornalista si rende conto che è stato fatto ancora troppo poco e talvolta anche male. Il nodo cruciale è proprio la coltivazione del papavero: se ai cittadini afghani non viene data una alternativa produttiva per sopravvivere, questi non si allontaneranno mai da una fonte di guadagno così sicura e redditizia. Sanno perfettamente di essere “coltivatori di morte”, anche se la loro reazione a questa consapevolezza varia da persona a persona, ma c’è qualcosa che li accomuna tutti: non hanno alternativa. Senza l’oppio è impossibile procurarsi da mangiare. Questi contadini non possono permettersi moralismi, perché hanno sulle spalle il peso di famiglie numerose. Spesso i loro campi vengono distrutti dal governo, ma loro trovano il modo di ricominciare, perché non possono fare altro. L’autrice auspica che, oltre all’eliminazione della coltivazione di oppio, vengano smosse le coscienze e si offrano nuove prospettive di vita agli afghani.
Il business della droga, poi, ha aiutato l’Afghanistan ad incrementare la produttività dell’economia nazionale. I soldi del traffico illecito sono stati riutilizzati per cercare di costruire un Paese nuovo e più moderno. La Nawa affronta anche l’annoso problema della corruzione ma, nonostante tutti i problemi, spera in un avvenire migliore.  L’autrice si considera, ed è vista dagli afghani stessi, come una donna sospesa tra due culture, quella afghana di nascita e quella americana di adozione. Talvolta è lei stessa a non riuscire a trovare un equilibrio tra le due. E’ molto interessante il discorso che fa sul conflitto di identità, sul fatto di essere una sorta di “ponte” tra due mondi e di essere vista sempre come “altra”, “straniera”, soprattutto in AfghanistanQuesto tema si lega alla condizione delle donne nel Paese natio. Fariba, pur rispettosa delle tradizioni, si accorge di aver ereditato dalla cultura occidentale la possibilità di essere libera, cosa non concessa alle donne afghane. Durante i suoi soggiorni nel Paese si rende conto di essere afghana ma, nello stesso tempo, “diversa” dalle afghane stesse, che spesso possono solo sognare di essere libere. Consiglio il libro a tutti coloro che vogliono andare oltre le apparenze e capire a fondo la realtà afghana, cosi diversa dalla nostra. Spero anche che il libro venga letto dai giovani, magari insieme ai loro genitori o nelle scuole, perché è un atto di coraggio, di amore verso il proprio Paese e un esempio di obiettività da cui si può imparare moltissimo. La Critica “Fariba Nawa intreccia i ricordi e la sua storia personale di riconciliazione con la sua patria, l’Afghanistan, con un coraggioso ritratto del traffico d’oppio che sta dilaniando il Paese, distruggendo la vita e il futuro dei cittadini”.  Khaled Hosseini, autore di Il cacciatore di aquiloni “Un romanzo intenso. Nawa traccia ritratti acuti e complessi di personaggi che si muovono entro e oltre i confini della legge, e crea un’opera notevole per la profonda onestà e per l’impegno nel raccontare le storie delle donne, anche quando ciò significa mettere a rischio la propria incolumità”. Publishers Weekly
“Nawa riesce a catturare la tragica complessità della società afghana… Il suo stile diretto e sicuro deriva dalla grande esperienza di reporter in zone ad alto rischio”. Kirkus Reviews
Recensione “La Moglie Afghana. Non tutte le donne sono nate libere” di Fariba Nawa
L'AUTRICE Fariba Nawa, premiata giornalista freelance, è nata in Afghanistan e vive in California. È stata corrispondente dall’Iran, dal Pakistan, dall’Egitto e dalla Germania. Si occupa in particolare del tema dell’immigrazione araba negli Stati Uniti e viaggia spesso in Medio Oriente per i suoi audaci reportage. Parla l’arabo e il farsi. Tra il 2002 e il 2007 è stata testimone in prima linea della guerra in Afghanistan. Il suo sito è www.faribanawa.com  


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