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Recensione: Prisoners

Creato il 12 novembre 2013 da Mattiabertaina

prisoners_ver3_xlgGenere: Drammatico

Regia: Denis Villeneuve

Cast: Hugh Jackman, Jake Gyllenhaal, Paul Dano, Terrence Howard, Maria Bello

Durata: 153 minuti

Distribuzione: Warner Bros

C’era molta attesa per il nuovo lavoro di Denis Villeneuve che un paio di anni fa aveva incantato il pubblico e la critica con lo splendido lavoro “La donna che canta” (candidato all’Oscar per il miglior film straniero nel 2011). “Prisoners” vanta un cast di altissimo livello, dal protagonista Keller, interpretato da Jackman (The prestige, Les Misérables) al poliziotto che non lascia nulla al caso, che ha il volto di Gyllenhaal (Donnie Darko, I segreti di Brokeback Mountain); dallo sfortunato ragazzo del camper Dano (Little Miss Sunshine, Looper) al padre razionale della bambina di colore Howard (Awake – anestesia cosciente, Crash – contatto fisico). La scommessa di Villeneuve era riuscire a mantenere il pathos ed il raccontare convincente visto nel precedente lavoro, ma con un budget decisamente più consistente ed una location prettamente “yankee”. La sceneggiatura è ben scritta ed il gioco dell’instillare il dubbio funziona per buona parte della pellicola. Le interpretazioni sono, come da attesa, di qualità, ma è da menzionare a parte, a parere di chi scrive, una prova di altissimo livello di Paul Dano, che si conferma talento e non più una bella promessa. Villeneuve intesse la tela disseminando qua e là contraddizioni, contrasti, indizi per rendere i rapporti tra i personaggi problematici, ma in modo quasi asettico, spingendo lo stesso spettatore a porsi delle domande su ciò che filtra dallo schermo, emozioni, passaggi, sguardi. Le simbologie e le allegorie sono numerose. Lo stesso titolo (fortunatamente rimasto il medesimo dell’originale) descrive questo assunto in modo laconico, quasi epigrafico: prisoners, ossia prigionieri. Prigionieri di chi, di che cosa? Ogni personaggio è prigioniero di uno stato mentale, di una condizione sociale, di un accadimento del passato, dell’incontrollabilità del presente, dell’impotenza dinnanzi agli eventi. Il fil rouge che attraversa tutta la pellicola è il tema della fede, che più volte viene accentuato inserendo musiche da chiesa o simbologie tipiche del cristianesimo (come ad esempio le croci). La fede pare non essere sufficiente e lo stato d’animo che campeggia costantemente sembra essere quello che porta allo smarrimento, all’essere (o al sentirsi) indifesi. Una condanna non troppo velata al presunto sogno americano, con le case circondate da steccati bianchi e giardini sempre curati. Una fede che non basta per uscire dal labirinto dell’esistenza, con l’immagine del labirinto stesso che torna periodicamente a cadenzare gli eventi. Un film interessante sotto il punto di vista allegorico ma che non regge la distanza ed anche le premesse che portano all’epilogo (comunque ben congeniato) sono un abbastanza prevedibili. Ben confezionato ma che non riesce a creare empatia e a fare breccia nell’animo dello spettatore.

Voto: 3 su 5


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