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Recensioni: Perché "La ferocia" è un romanzo necessario. Che ci riguarda tutti

Creato il 29 ottobre 2014 da Stupefatti

Recensioni: Perché

"La ferocia" è un libro bello, e volendo potrei chiuderla qua. Certo però che non sarebbe cosa buona, né tantomeno giusta, se una volta tanto che mi capita tra le mani un romanzo degno di aspirare al titolo di OperaLetterariaContemporanea io me ne uscissi così, sintetizzando il tutto con una frase minima - soggetto e predicato nominale, senza neanche il prio di un'espansione. E allora ve lo spiego brevemente il perché "La ferocia" di Nicola Lagioia è un libro bello, di quelli che se avete velleità letterarie o semplicemente siete tra quanti usano i libri come bussole per orientarsi nel mare magnum - altrimenti detto bordello - dell'umana e quotidiana esistenza, sarebbe il caso che ci deste un'occhiata. Non voglio prendere in giro nessuno: all'altezza di pagina 30 il poderoso volume ha corso seriamente il rischio di fare un volo attraverso il soggiorno, con buona pace della parete di fronte. Il problema è mio, lo riconosco, perché stento a fidarmi degli scrittori che fanno uso frequente della metafora: mi vuol fare vedere quant'è bravo/a? Meno parole, più fatti (Copyright Maurizio Gasparri, non sia mai si dovesse incazzare), e finiamola di masturbarci sulla pubblica piazza. Il fatto è che Lagioia a maneggiare metafore è bravo assai, se la spirugghia. La sua è una scrittura complessa, che cerca e scava e si ingegna di trovare le parole adatte a rendere tangibili universi e percorsi mentali che dobbiamo fare attenzione, questo sì, a distribuire equamente tra autore e personaggi. Insomma, per farla breve, ad un certo punto c'ero dentro: dopo la boa di pagina 50 anche io - ipercritica lettrice di poca fede - mi ero lasciata artigliare in quel luogo interiore imprecisato e profondissimo, che sta su per giù tra la gola e la zona addominale (la bocca dello stomaco, va'), e trascinare giù tra le pieghe della trama, fianco a fianco a personaggi che se non si erano ancora staccati dalla pagina per cominciare a vivere di vita propria era solo perché aspettavano che andassi io a fargli visita.

Noir, ma anche Bildungsroman alla rovescia, ma anche saga familiare, ma anche impietosa e autoptica narrazione del tempo che è: diciamo che se qualcuno si è sbilanciato a parlare di Grande Romanzo Italiano ha i suoi validi motivi. Il merito del Nostro è quello di aver fatto della storia di ascesa e implosione di una famiglia di palazzinari baresi - i Salvemini - la metonimia dell'Italia contemporanea, con le sue ipertrofiche zone grigie che intrappolano nella rete della connivenza anche il più miserabile dei cittadini. Come la Bari dei Salvemini, così l'Italia dei Berlusconi, e dei Renzi e di tutti noi, uno per uno, che abbiamo fatto rientrare l'intrallazzo nell'ordine naturale delle cose e, così depotenziato, lo accettiamo senza provare neanche a scandalizzarci. Nella Puglia notturna di Lagioia - tanto più oscura quanto più abbacinante è la sua luce, tanto più glaciale quanto più torrida è la sua estate (1) - il sacro ideale italico della Famiglia si rovescia in un familismo asfissiante, capace di distruggere gli anelli più deboli della catena, come potrebbero essere Clara e Michele Salvemini. È a questo punto che salta fuori la ferocia. Attenzione: non la cattiveria, che è un sottoprodotto della cultura, ma la ferocia, espressione ultima e potente di quell'istinto di sopravvivenza che ci ricorda e quasi ci rinfaccia che siamo nati bestie. Nelle pagine del romanzo, la ferocia del titolo è declinata in ogni sua espressione, e si dà ragione anche della sua più tenue sfumatura: feroce è allora l'avidità del capofamiglia Vittorio, che se si sporca le mani lo fa per amore dei figli; feroce è Clara nella sua discesa verso l'abisso, mentre risucchiata dalla voglia di autenticità trascina con sé tutti quelli che incontra; feroci sono la stupidità di Gioia e lo stacanovismo di Ruggero, ed è feroce anche Michele, l'(anti)eroe di questa storia. Michele, con la sua psiche fragile che fa di lui "il colombo che non vola", è colui che ribellandosi apparentemente ad una natura che lo vorrebbe spietato, in realtà mette in atto il tentativo estremo di salvare se stesso, spazzando via tutto il resto. Istinto di sopravvivenza, che sfugge a qualsiasi giudizio.

(1) "[...] nonostante la sua intensità, o forse a causa di questa, la luce del sud rivela nella memoria una profonda natura di tenebra. Nella sua esorbitanza, varca continuamente i confini del regno opposto, e quando si dice ch'è accecante, si vuole forse alludere, senz'averne esatta coscienza, a certi guizzi di buio che vengono dal suo interno, a certi squarci sulla notte cupa come può farli un'eclissi nel cielo di mezzogiorno...". Lo scriveva Vitaliano Brancati, nell'apertura di Paolo il caldo: lui pensava alla luce siciliana, io credo che non sia sbagliato ampliare il raggio di applicabilità di questa massima fino a raggiungere la Puglia. O qualsiasi altra regione meridionale vi salti in mente.


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