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Regola 18: confondere le acque

Creato il 08 novembre 2011 da Dallenebbiemantovane

No. 18 - A crime in a detective story must never turn out to be an accident or a suicide. To end an odyssey of sleuthing with such an anti-climax is to hoodwink the trusting and kind-hearted reader.

(N. 18 - Un crimine, in un romanzo giallo, non può mai essere derubricato in incidente o suicidio. Far finire un'autentica odissea di detection in questo modo così banale significa voler infinocchiare a tutti i costi il fiducioso e gentile lettore.)

 

Intorbidare le acque per prendere i pesci.

(I trentasei stratagemmi, anonimo cinese di epoca Ming)

 

 

Qui io mi oppongo, Vostra Giallezza, mi oppongo con tutte le mie forze. Lei può anche ribattere che la mia posizione è tendenziosa, avendo io scritto e inviato agli editori un giallo che mescola suicidi, incidenti sul lavoro e omicidi, ma è esattamente il contrario.

Io ho concepito un giallo così imbastardito perché mi sembrava una buona idea confondere le idee al mio investigatore facendogli dubitare che i suicidi fossero veri suicidi, che gli incidenti fossero veri incidenti e – di conseguenza – che ci fosse davvero un assassino in giro.

 

In primo luogo desideravo intorbidare le acque stantie del tipico plot giallo e, confondendo le idee al lettore, stimolare la sua inventiva.

 

Non volevo fare fesso il lettore: volevo farlo riflettere.

Volevo farlo riflettere sugli incidenti sul lavoro, che in Italia sono sempre e solo occasione per grandi sprechi di ipocrisia istituzionale e giornalistica, dopodiché tutto ricomincia come prima fino alla prossima (che ipocrisia anche nel lessico!) “morte bianca”.

Volevo fargli pensare a come siano sempre più diffuse, a tutti i livelli – non esclusi i poliziotti, come la cronaca nera ha abbondantemente dimostrato -, in tutto il mondo, le malattie mentali tra cui la depressione e il disturbo maniaco-depressivo, a come il suicidio (e l’omicidio) siano spesso messi in atto (preannunciati o meno) da chi ne soffre.

Volevo fargli immaginare (e qui si passa dall’arida pianura del dato reale al piano inclinato della fantasia) come un assassino possa – con una certa plausibilità - progettare un delitto confondendo le acque e traendo profitto da una situazione confusa, frutto di indagini caotiche da parte di investigatori impreparati e fragili.

 

Penso che siano definitivamente tramontati i deliziosi tempi del delitto nella camera chiusa: la porta ormai si è aperta, spalancata anzi, e da quella porta entrano i miasmi della realtà, inutile tapparsi il naso col fazzolettino ricamato di nonna Agatha.

 

Per quanto riguarda il flirtare dei giallisti con il suicidio, potrei citare ad abundantiam gente (pubblicata, quindi qualcuno ha creduto nel loro progetto) che la pensano come me.

Ricordo tra gli altri il John Dickson Carr – giallista classico, si noti - di Tre suicidi improbabili o Gideon Fell e il caso dei suicidi (The Case of the Constant Suicides, GB 1941), ma anche La collina dei suicidi (Suicide Hill, Usa 1985) di James Ellroy, Stagione di suicidi (Suicide Season, Usa 1987) di Rex Burns, il recente polar francese Sezione suicidi di Antonin Varenne (F 2011), peraltro giudicato da molti noiosissimo.

 

Anche gli incidenti sul lavoro sono ormai diventati oggetto letterario a tutti gli effetti. Ho trovato in rete, limitandomi agli italiani, Valerio Varesi, Il paese di Saimir (I 2009) e Giovanni Dozzini, L’uomo che manca (I 2011).
Ma perfino Beppe Grillo ha dedicato un saggio a questo tema: Morti bianche (I 2008). Io non lo sapevo, e voi?


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