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Regola n. 10: il solito noto

Da Dallenebbiemantovane

No. 10 - The culprit must turn out to be a person who has played a more or less prominent part in the story--that is, a person with whom the reader is familiar and in whom he takes an interest.

(N. 10 - Il colpevole deve essere una persona che ha avuto un ruolo più o meno significativo nella vicenda; ovvero, una persona che è divenuta familiare al lettore e per la quale egli ha provato interesse.)

Io confesso: questa l’ho violata alla stragrande. Se mai il mio romanzo vedrà la luce, non solo la Niki e la Stefi bensì il mondo intero scoprirà che, per diverse ragioni, il mio colpevole appare in scena molto, ma molto tardi.
In realtà anche giallisti classici lo fanno, nel senso di evocare distrattamente un personaggio nei discorsi dei protagonisti, e facendolo comparire in scena, con un vero e proprio gioco di prestigio, soltanto alla fine: è il caso di Giorno dei morti della Christie, un bellissimo romanzo tra l’altro.

Ma non vorrei giustificarmi. La cosa non mi è capitata involontariamente; è stata una mia libera scelta espressiva. Trovo che tutto dipenda dalla prospettiva dello scrittore. A me, in corso d’opera, è parso che far brancolare nel buio gli investigatori fino a tre quarti dell’intreccio, incerti sulla matrice privata o pubblica, passionale o meno, seriale o meno, dei delitti fosse un buon modo per tenere desta l’attenzione. A quel punto, lasciare il colpevole sullo sfondo diventava giocoforza.
Poi ho lasciato dilagare le false piste, concentrandomi in particolare su una che il lettore dovrà trovare particolarmente insopportabile, visto che riguarda un personaggio già provato dagli eventi nella prima parte del romanzo, quella più, diciamo così, sociologica.
Da un certo punto in poi, infine, l’ipotesi vincente sulla natura dei crimini commessi si rafforza, e vediamo il cerchio stringersi sempre più attorno ai potenziali colpevoli, finché ne rimangono un paio e infine uno solo (ho voluto evitare il vecchio giochetto della falsa soluzione-capro-espiatorio).

Van Dine, saggiamente, dice: il colpevole dev’essere una persona “per la quale il lettore ha provato interesse”. Non so. Mi sembra una soluzione ormai ipersfruttata e troppo attinente al giallo da camera chiusa.
Ad esempio, leggere un P.D. James degli anni ’90, ancora con la solita ricetta, sa di stantio: e infatti la James è il museo delle cere del giallo, gli ingredienti ci sono tutti ma il sapore è quello della Luisona di benniana memoria.
Non cito nemmeno Elizabeth George o, tra i neovittoriani, Anne Perry. Letto uno, li hai letti tutti: e sapere dal primo istante che il colpevole è tra i personaggi introdotti nelle prime dieci pagine, anche se non sappiamo chi sia, elimina per sempre la possibilità del romanziere di giocare con l’ambiguità, le apparenze, il caso, il mistero.
Il che dimostra, ancora una volta, che i tempi sono cambiati.


Nella prossima puntata mi dedicherò a una questione molto più appassionante: il colpevole può essere il maggiordomo? Dal giallo dell’Olgiata - un cold case risolto vent’anni dopo -, a Gosford Park di Altman: come giallo e marxismo finiscono provvidamente a letto insieme.


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