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Renato Vallanzasca l’eccezione italiana di una vita dietro le sbarre (non dietro le quinte).

Creato il 20 gennaio 2011 da Yourpluscommunication

Renato Vallanzasca l’eccezione italiana di una vita dietro le sbarre (non dietro le quinte).

Non sfuggono nemmeno alla carenza di diottrie le polemiche che, negli ultimi giorni, hanno calcato le pagine dei quotidiani nazionali avvolgendo la pellicola su Vallanzasca, in uscita domani 21 gennaio 2011 in tutte le sale italiane. Salterei volentieri qualche passaggio irrilevante, come la critica di Davide Cavallotto della Lega Nord che, pare necessiti tutte le volte dei riflettori di questo o quell’altro film per illuminarsi e, ahimè, non illuminare dispensando “saggezze” non proprio in linea per età con le storie raccontate. Nato infatti nel ’76, il 14 Aprile del 1976, non credo abbia proprio vissuto quell’Italia che si faceva sempre più nera, da nord a sud, per riprendere anche Placido. Certo, magari avrà approfondito gli argomenti (anche se la cosa mi sembra assai difficile dato che – come si legge nella biografia del suo sito- diplomato come perito tecnico industriale ed in possesso del patentino da radioamatore con il nome di IW1 FAE, dopo gli studi non perde tempo e segue le orme del padre intraprendendo la carriera come agente di commercio nel campo ortopedico sanitario per la zona Padania Ovest -Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta-).

Tra politica, lavoro e famiglia (già padre di due figli) i suoi interessi non sembrano (dico sembrano) essere direttamente proporzionali a quelli che invece, più lecitamente, vengono sanciti dalle parole dei familiari delle vittime. Sia per Romanzo Criminale, sia per Vallanzasca, Cavallotto e le sue perle di saggezza arrivano, come il fastidioso ronzio di una mosca, sempre prima delle anteprime (riservate alla stampa). A parte la tempestività con cui abbia sfruttato quei 5 minuti di gloria che fanno rassegna e (a)morale comode, non mi pare, infatti, che abbia assistito, senza citare quelle proiettate al tanto odiato sud, a quelle presentate al festival del cinema di Venezia. Mi sembra, poi, oltremodo illogico (per di più da chi lo fa per “partito preso”) usare tanta autorità e autorevolezza per decidere cosa gli italiani devono più o meno andare a vedere al cinema, o di quali libri devono far tesoro come se fossero degli stupidi senza testa. Fortunatamente, non in tutta Italia c’è una nebbia così fitta da non far vedere oltre il proprio naso.

Renato Vallanzasca l’eccezione italiana di una vita dietro le sbarre (non dietro le quinte).
Renato Vallanzasca 1977 Agenzia Giornalistica Italia

Dopo aver speso più parole di quelle che intendevo per il signor “non l’ho vissuto, non l’ho visto ma comunque non guardate”, credo che nessuno possa sputare sentenze su qualcosa che potrà essere vista solo domani. Certo è che se per raccontare la storia di quegli anni si fosse utilizzato un altro titolo e magari un altro protagonista, la pellicola ancor prima di rimbalzare da una sala cinematografica all’altra, sarebbe passata quasi inosservata anche sulla stampa. Sebbene l’Italia è un Paese per vecchi, non è certo fatto di stupidi. Risulta abbastanza evidente a tutti, infatti, come le scelte che girano attorno al titolo, piuttosto che intorno al protagonista (reale e surreale) siano legate alle strategie di marketing e di vendita. Così come, è più che chiaro sollevare questo o quel problema da questa o quell’altra parte dello stivale, affinché l’eco del successo cinematografico arrivi a superare le aspettative.

Altrettanto vero, però, che a dipingere di nero la Milano di quegli anni (che da siciliana non ho vissuto né ricordo ma di cui, per Notte Criminale, mi sono dovuta documentare) autore indiscusso, è stato proprio Renato Vallanzasca. In mezzo alle lotte studentesche, la poca stima e fiducia che si aveva nelle forze dell’ordine, tra le stragi e il terrorismo, proprio lui, è stato (pagine e pagine di giornali del tempo alla mano) colui che, in modo sicuramente originale e senza esser, pare, mai sceso a patti con politica, servizi segreti, massoneria o chiesa, ha governato, se non come l’ottavo re di Roma, Milano. Lui, fuori dalle regole e dagli schemi ha promosso ed approvato, senza interpellare Camera e Senato, le sue leggi, la sua “etica criminale” imponendole alla sua banda e alla sua città.

Renato Vallanzasca l’eccezione italiana di una vita dietro le sbarre (non dietro le quinte).

Vallanzasca processo 31 maggio 1977

E’ vero che ha fatto tanto male e, strano a dirsi e leggersi, anche tanto bene (notizie apprese dai racconti di gente comune e meneghina).  Un uomo che è stato esaltato dal suo ego ed ancor più dai mass media che, dalla nera alla rosa, non hanno mai perso una sua mossa, un suo si, un suo possibile flirt. Eppure, questo stesso uomo, non ha mai negato le sue colpe, non si è mai sottratto alle sue responsabilità, non ha mai “venduto” nessuno per salvare se stesso. Semmai, e di certo non perché faceva dei buoni bottini, ha comprato responsabilità altrui perché, anche questo, faceva parte del suo codice non scritto ma calcato nel suo DNA.

Certo, ciò non vuol dire che è un povero martire: ha ucciso con le armi ma, se non per le regole – spesso di sopravvivenza- estranee a chi non vive o ha vissuto il carcere, non con le parole. Eppure gli si intima “silenzio”. In contemporanea alle “anteprime” ormai passate, le critiche come quella di espropriarlo della cittadinanza italiana, non si placano e oggi si apprende da una nota del SinaPPe che «Nonostante i 38 anni di carcere, Vallanzasca ha ancora oggi un difficile rapporto con il rispetto delle regole»  e nella stessa si chiede che gli vengano revocati i benefici acquisiti, perché durante le vacanze a Mondragone con la moglie, Antonella D’Agostino, ha usato toni e termini contro Pubblici Ufficiali che gli hanno presentato il conto di una denuncia per oltraggio agli stessi. La cosa che mi lascia un po’ basita è però continuare a leggere la stessa nota ed apprendere quanto segue: Di fronte a un comportamento “assolutamente censurabile” il sindacato si chiede perché “un criminale macchiatosi di reati di gravissimo allarme sociale” possa “rimanere impunito”.

Renato Vallanzasca l’eccezione italiana di una vita dietro le sbarre (non dietro le quinte).
componenti banda Vallanzasca (AGI)

Beh, a parte che fare un comunicato stampa su questa notizia il 20 gennaio –casualmente lo stesso giorno in cui viene proiettato il film a Napoli- di una cosa avvenuta a dicembre (tra le altre cose, proprio in quei giorni, Vallanzasca rilasciava ad Angela Rossi, un’intervista per Il Mattino, andata in pagina il 28 dicembre 2010 e per la quale, Roberto Martinelli, Segretario generale aggiunto SAPPE, ha fatto seguire una nota d’indignazione dove, però, non si faceva riferimento alla denuncia ma si leggeva quanto fosse grave anzi, «è una vergogna che un esempio negativo come Vallanzasca possa permettersi di chiedere «seconde possibilità»).

Volendo essere cinici, a me sembra, che si voglia “approfittare” della scia Vallanzasca o magari entrare nel protagonismo. Mi è infatti difficile pensare che venga inviata una nota stampa ogni volta che un detenuto usa termini poco cordiali con un pubblico ufficiale beccandosi una denuncia (sempre se la nota sulla cattiva condotta vienga fatta). Nel caso specifico, stento a credere che gratuitamente e senza nessun motivo scatenante, Renato Vallanzasca, un uomo di 60 anni, che sa benissimo essere al centro del mirino soprattutto in quest’ultimo periodo dove con il film “Vallanzasca. Gli angeli del male” di Michele Placido, tratto dalla biografia scritta insieme a Carlo Bonini “Il Fiore del male. Bandito a Milano”, e con un’altra biografia scritta a quattro mani con Leonardo Coen “L’ultima fuga. Quel che resta di una vita da bandito”, vada in cerca di grane.

E poi va bene tutto ma “impunito”???…mi sembra troppo. Credo che se la Giustizia Italiana possa vantare per una volta di chiamarsi tale, è proprio in riferimento al bandito d’Italia n°1 che ha trascorso quasi 40 anni in galera trenta dei quali, in regime di carcere duro, venti in isolamento. A parte i suoi mesi di libertà, infatti, la vita di Vallanzasca si è svolta giustamente, non dietro le quinte ma, dietro le sbarre. Quei benefici di cui si chiede l’abrogazione, sono arrivati molti anni dopo rispetto ai “classici” 10 di reclusione previsti del primo comma dell’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario e la grazia, concessa in sordina a molti, gli è stata negata sia da Ciampi sia da Napolitano restando per la legge, un criminale senza scrupoli ed in Italia, stranamente ed ancora una volta l’eccezione di quella che dovrebbe invece essere una regola, è uno degli uomini che ha scontato la pena più lunga.

Eppure in quest’Italia che fatica a rapportarsi con il male ed il passato, viene rilasciato Furlan e vengono rilasciati boss condannati all’ergastolo per decorrenza dei termini. Battisti resta, ad oggi, impunito in Brasile (anche se L’Europarlamento di Strasburgo ha approvato la richiesta di estradizione) “partia” di Lollo fino a qualche giorno fa quando, tornato in Italia, si è avvalso della facoltà di non rispondere in merito all’omicidio dei fratelli Mattei . Notizie, con la enne maiuscola, che trovano spazietti sui tagli bassi delle pagine dei giornali, troppo attenti, ormai, ad una politica degli eccessi alla quale siamo abituati da sempre ma di cui ci scandalizziamo(?) ancora.

Renato Vallanzasca l’eccezione italiana di una vita dietro le sbarre (non dietro le quinte).
Eco di Bergamo 1977

Nel massimo rispetto per i familiari delle vittime del dovere, che per colpa della banda della Comasina in sequenza hanno visto il 23 ottobre del 1976, a Montecatini, la fine dell’appuntato Bruno Lucchesi, il 30 ottobre dello stesso anno, di Umberto Premoli, il 13 novembre ad Andria dell’impiegato di banca Emanuele di Ceglie, il 16 novembre a Milano in Piazza Vetra, quella del brigadiere Giovanni Ripani, il 7 febbraio del 1977 al casello di Dalmine quelle dei due agenti della stradale Renato Barborini e Luigi d’Andrea, mi chiedo: come mai, si infervorano solo per il Vallanzasca e non per altri assassini che hanno distrutto le loro vite e cancellato quella dei loro cari? e come mai si tace sulla mini fiction che da febbraio, si girerà su Felice Maniero? ed ancora, come mai nessuno è insorto sulle vittime (non poche) che la banda della Magliana ha fatto (e anche in questo caso, non parliamo di preistoria).

Renato Vallanzasca l’eccezione italiana di una vita dietro le sbarre (non dietro le quinte).

Se è vero che il perdono è divino, il pentimento è, oltre che personale, moralmente parlando, possibile.Riportato alla legge italiana, poi, pentirsi fa sì che il collaboratore di giustizia, possa usufruire di una nuova identità, vita, protezione e (come per il veneto Felicetto) libertà, perché non è possibile pensare un uomo che sta scontando 4 ergastoli e 260 anni di reclusione per i reati commessi nell’arco di soli 200 giorni circa (25 luglio 1976 data della sua prima evasione al 15 febbraio 1977, data della sua cattura) e che vive in carcere da sempre, abbia, magari durante il periodo in cui passava ventitré ore al giorno in 9 mq, in isolamento o in “privazione sensoriale”(misura di costrizione ed umiliazione per gli irriducibili, chi non si pentiva e chi continuava a professarsi innocente per i delitti compiuti) potuto rielaborare il male fatto  maturando un sentimento di pentimento?

Renato Vallanzasca l’eccezione italiana di una vita dietro le sbarre (non dietro le quinte).

Certo, Vallanzasca è da giudicare a prescindere, è da inseguire e pedinare in ogni sua mossa (non mi pare che per ogni detenuto che va a lavorare la stampa si mobiliti a tal punto, né che arrivino note stampa di disgusto e disprezzo da parte di familiari delle vittime non meno fortunate… Ripeto: Vallanzasca non è un Santo, tutti i criminali (e tutti gli uomini) non lo sono…mi pare di dire l’ovvio ma, continuare ad intimargli il silenzio e approfittare della stampa per tirarlo in ballo a volte gratuitamente, beh…metterei alla prova un po’ tutti. L’unica differenza sta nel fatto che noi, liberi, possiamo rispondere alle accuse, lui in galera, DEVE tacere, perché è giusto così, perché merita di marcire, perché ha smesso di essere un uomo, perché non deve e non può pensare. Bene, allora, piuttosto che il silenzio, intimiamo Maniero a rispondere perché forse per lui è stata proprio la comodità di una giustizia più lunga nello svolgersi dei processi, più clemente nelle pene, meno incisiva sul voler scoprire celermente mandanti, assassini e affari sporchi.

Renato Vallanzasca l’eccezione italiana di una vita dietro le sbarre (non dietro le quinte).
Maxi processo Mala del brenta

Effettivamente l’affaire Maniero scotta. Scotta perché in Veneto troppe amicizie sono correlate a quel nome, troppe le vicende da chiarire, troppi i legami con la ricchezza, con la mafia, con la camorra,(come Totuccio Contorno, Gaetano Fidanzati, Guglielmo Giuliano, Misso o Guida) con la politica (come quando nel 1991, il Partito Comunista cedeva il passo al Partito Democratico della Sinistra – stando  alle dichiarazioni di Sorgato- Maniero dava gratuitamente le tessere ai suoi sodali), con le stesse istituzioni, le forze dell’ordine (come Angelo Paron, maresciallo dei Carabinieri del Ros di Padova che passava oltre alle soffiate sulle indagini, droga e proiettili per la sua beretta calibro 9, oppure Antonio Papa, ispettore della squadra mobile di Padova, nonché la gola profonda per i consigli su quale banca austriaca spostare il denaro). I Santi, per l’affaire Maniero, forse perché aveva la “Faccia d’angelo”, hanno anche indossato le toghe dei giudici ingraziandolo con qualche carezza alle pene, sebbene, tra le sue “prodezze” una più delle altre fa rabbrividire: l’assalto al treno a Vigozza dove, con un’esplosione del vagone postale, è morta una ragazza innocente che viaggiava su un altro treno in senso contrario. Eppure sulla nuova mini fiction tutto tace come pure, sa di poco l’intervista “dovuta” ad Andrea Pasqualetto, con il quale Felice ha scritto il libro dal quale, con Elio Germano ad interpretarne le “gesta”, verrà tratto in pellicola quello spaccato di…di…stento a trovare le parole, perché anche quello, si, quello, è lo spaccato di un’Italia che resta immutato.

Un’Italia venduta, che si lascia comprare in nome di denaro e successo, un’Italia che fa la morale e non si specchia mai perché non vuol riconoscersi, un’Italia che è stata, e peggio ancora è, ancora quella. Il pentimento…beh, il contratto firmato tra Stato e Maniero sembra più fatto per mantenerli i segreti (come ha fatto per le dichiarazioni che voleva rilasciare a Casson ma mai effettivamente rilasciate)  che per svelarli (ma certo c’è chi dice che grazie alla sua collaborazione, si è sgominata l’intera banda -peccato si ometta che in quelle reti ci sono finiti i pesci che voleva ci finissero o poteva farci finire e quelli piccoli che, in ogni caso, prima o poi, ci sarebbero finiti ugualmente). Perché nessuno ha mai veramente accertato che la collaborazione fornita alla legge fosse reale? Il rischio era quello di far un buco nell’acqua o magari di rievocare quegli sconti di pena, o da far pena, veramente stracciati (non voglio nemmeno dimenticarvi quanta poca cella si sia fatto Maniero, anzi, nel rinfrescare i fatti, come se stesse giocando al casinò, stava perdendo le agevolazioni acquisite, perché si venne a sapere che lui stava scontando in una mega villa di lusso le sue pene -…già…che pena!!-).

Renato Vallanzasca l’eccezione italiana di una vita dietro le sbarre (non dietro le quinte).

Gli avvocati Enrico Cogo ed Evita Della Riccia, tra le pagine del fascicolo del Pubblico Ministero Mossa hanno trovato lettere scritte dallo stesso Maniero e, lette in aula nel maggio del 2008, dove per salvare se stesso, madre, moglie, cugino e figli, a balzare subito agli occhi, nero su bianco, è come la sua libertà fosse stata studiata a tavolino: «Studiare come si deve la mia verbalizzazione – scrive infatti Felicetto – non è un problema: come ho già accennato ieri, mi pare sia fattibile». Per aggiustare le sue dichiarazioni, stando a quanto hanno affermato i due legali, Maniero avrebbe ritoccato fatti già “in memoria” colpevolizzando anche chi non era implicato in alcune vicende. Certo è che oggi la vendita di responsabilità e silenzio, a dispetto di un’Italia disoccupata, frutta. Lui, infatti, non gode dei benefici previsti dall’articolo 21. Lui possiede un’impresa, libertà, faccia e vita nuova. Renato Vallanzasca, ne gode solo dopo 38 anni di galera, e va additato. Se starnutisce fa notizia e se qualcuno decide di fare un film su di lui, a prescindere dalla sua volontà, è e rimane ancora una volta colpevole comprandosi, anche in queste circostanze, responsabilità che non gli competono (non mi pare faccia il regista) e pagando per mandare al diavolo, come capita ad ogni essere umano, la gente che, tra buoni e cattivi (quindi detenuti e forze dell’ordine) frequenta regolarmente da sempre (sempre se, come uomo, gli è ancora concesso irritarsi).

Ovviamente per non dilungarmi ancora troppo, lasciamo in sordina anche il silenzio che comitati di vittime, di polizia e perché no di Chiesa e politica hanno lasciato ai posteri non indignandosi per quello che la banda della Magliana, guidata ora da questo, ora da quello, ha fatto. Più semplice spostare l’attenzione sulla vendita di accendini con il Libanese piuttosto che con il Freddo (dove, anche in questo caso, ad acquistare i gadget, sono si i ragazzini, ma con i soldi dei genitori).

Renato Vallanzasca l’eccezione italiana di una vita dietro le sbarre (non dietro le quinte).
Il Messaggero 1981

Freddo, anzi gelo quello che, casi così scottanti, riescono a procurare (si legge proprio oggi sul settimanale Sette in allegato con il Corriere della Sera  che il prossimo mese verrà riesumata la salma di De Pedis sepolto – come fosse un Santo o un Papa- nella Basilica di Sant’Apollinare a Roma…sotto gli occhi di un’Italia che finge di credere di poterci trovare qualcosa che, se scomoda, è stata a suo tempo rimossa…ma poi sul perchè un assassino è sepolto lì, glissiamo…figuriamoci se è la prima cosa che dovrebbe essere spiegata). Ma disquisire su  quel Vallanzasca,  mai venduto, è sano e giusto (e per evitare fraintendimenti, non mi riferisco alla scelta fatta per il pentimento giuridico – l’avesse fatto, oggi sarebbe libero – ma ad organizzazioni, istituzioni e angeli del Paradiso – terrestre ovviamente-).

Pervenute ab illo tempore alla direzione del carcere di Bollate, le notifiche dei souvenir  natalizi, non saranno state, di certo, una novità oggi 20 gennaio. Raccontare, poi, la storia di una parabola criminale discendente in un Paese democratico è, a mio avviso, legittimo così come è legittimo scegliere di comprare qualsiasi libro ed andar a vedere qualsiasi film. Prima di averli letti e visti, però, sarebbe bene evitare polemiche. A fare tanto rumore, infatti, non è il racconto in se, né il Vallanzasca del caso ma le chiacchiere. Il silenzio, quello sano e giusto è quello che dovrebbe precedere qualsiasi cosa di cui non si ha ancora avuto modo di sapere e sulla quale,quindi, poter esprimere opinione; viceversa, il silenzio che chiude obiettivi, memorie, ricordi…beh, quello uccide.

Può sembrare irrispettoso, poco dignitoso, oltraggioso e di pensiero scadente ma, come si vocifera tra le strade milanesi, se Vallanzasca ha infangato la storia di Milano ad infangare il nome di quelle vittime, pare, ci sia qualche familiare che, sebbene già separata in casa molto prima che quel colpo  facesse diventare vittima il suo uomo, adesso si avvale di un “agente”(e di certo non di custodia) per le sue apparizioni in questa o quella trasmissione, piuttosto che in questo o quel giornale. Questo, a mio avviso, è infangare la memoria tanto delle vittime, quanto dei familiari che, per quelle vittime, soffrono e non lucrano.

Concludo con le parole di Salvatore Nastasia direttore del carcere di Busto Arsizio che proprio oggi, per Varese News, ha affermato: «Dico sempre che ai detenuti non bisogna dare il pesce ma la canna da pesca. Il carcere non è una caserma. Chi ci vive ha bisogno di sapere che ci sono delle opportunità. Ha bisogno di imparare qualcosa che possa servire in futuro.» Il direttore parla dei carcerati chiamandoli per nome, ne conosce la storia, racconta dei loro concerti, del teatro: «I detenuti hanno voglia di sentirsi vivi, socialmente vivi. Seguono con attenzione quello che accade al di fuori: la comunicazione, le nuove tecnologie. – continua Nastasia – C’è chi discute, soprattutto i giovani, se sia meglio Mac o Windows. È difficile far capire all’esterno che dietro le sbarre c’è una città pulsante e viva. Ma sarebbe giusto farlo, uscendo dagli stereotipi. Soprattutto perché il carcere è sempre collocato nella periferia, delle città e delle coscienze».

Marina Angelo

Per il materiale fotografico si ringrazia la redazione de “Il Giorno

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