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#RETROWEEKEND – Il Fine Settimana Diventa Retrò. 14 – 15 – 16 Novembre

Creato il 14 novembre 2014 da Retrò Online Magazine @retr_online

Elvis Presley è stato un cantante, attore e celebre personaggio della cultura popolare americana del dopo-guerra. Indiscussa icona dei celebri ’50s, conquista lo show-biz americano in pochissimo tempo e prende d’assalto le classifiche mondiali circa la vendita di dischi per quasi un ventennio. Con Elvis Aaron the Pelvis (“Elvis Bacino”) la musica cambia irreversibilmente volto e aspetto, e vengono così poste le basi per un nuovo modo di fruire e concepire la musica popolare, che riuscirà a prendere coscienza di sé solo dieci anni dopo, con i Beatles.
L’America lo ha adorato dal principio fino alla fine, senza mai esitare, nemmeno di fronte alle scomodissime accuse di razzismo ricevute nel ’57. Tutti veneravano il re. E mentre lo veneravano, Elvis entrava nelle loro teste, nei loro libri, nelle loro radio e, in alcuni casi, nelle loro gonne.

Per questo #retroweekend vi proponiamo dunque tre spunti per riflettere sulla cultura dei favolosi ’50s e sulle controversie del personaggio così piacente ma al tempo stesso così insicuro, che per lungo tempo li ha meglio di tutti rappresentati.

Il venerdì sera noioso.

La critica musicale, quando si parla della figura di Elvis, si spacca in due; e le parti si criticano aspramente fra di loro. Una parte sostiene il genio e l’estro creativo di Elvis, riconoscendogli il merito di aver commistionato per la prima volta differenti culture musicali. Il lato oscuro della critica, invece, al genio di Elvis non riconosce nulla. Giusto la brillantina e l’acconciatura dei sui stessi capelli. Nulla di più. Alcuni hanno, infatti, in lungo e in largo sostenuto che Elvis Presley non fosse stato null’altro che un buon prodotto discografico, studiato per donare un’identità alla musica popolare americana, che ancora non ne aveva una. Dilaniata nei lembi delle due culture principali che la componevano, la musica americana, prima di Elvis, non era ancora riuscita a trovare un buon compromesso a livello discografico. La musica dei Jims Crow era troppo poco educata per i bianchi e, benché senza dubbio consistesse nella novità del secolo, non riusciva ancora ad entrare nelle classifiche pop ed essere riconosciuta dal grande pubblico degli whites.

Celebre a tal proposito la frase che era solito pronunciare Sam Philips, prima di guadagnarsi la firma di Elvis su un contratto per la Sun Records.

Se trovassi un bianco che canta con l’anima di un nero diventerei miliardario

Fu vero solo in parte. Sam Philips ebbe, assieme a Scottly Moore, sotto la propria conduzione la carriera di Elvis Presley solo fino al ’56. Da lì in poi i soldi veri li cacciò fuori “Il Colonello”, talent manager di fama mondiale, una leggenda di Las Vegas e della music industry, meglio conosciuto all’anagrafe come Thomas Andrew “Tom” Parker. Elvis stesso ammise che l’apice di fama raggiunto fu un merito dell’intelligenza impresaria del Colonnello. – He’s a very smart man – era solito dire il Re del Rock and Roll a proposito del suo manager.

C’è da dire che in quel determinato momento storico, trovarsi fra le mani un personaggio originale come Elvis, in uno scenario musicale ancora più vergine di quello a cui si sono affacciati i Beatles, avrebbe certamente fatto la fortuna di chiunque avesse deciso di investirci due soldi. E questo perché quello che lamentava Sam Philips, si trasformava in realtà quando Elvis saliva sul palco. Le sue movenze erano negre, le sue espressioni sceniche erano da negro e il suo voler essere pacchiano a tutti i costi era da negro. Tutto armoniosamente racchiuso in un contenitore socialmente vendibile, coperto da una pallida pelle rosea e fattezze gentili e filtrato da una timbrica vocale che ruffiana strizzava l’occhio agli affezionati dell’operetta e della canzone anni ’30. Elvis non era né un grande chitarista, nè un buon vocalist ma era l’appeal con cui faceva le cose a renderlo unico. Elvis è il primo a sessualizzare le sue performance con gesti e movenze sinuose eseguite durante la performance vocale. Noi che siamo abituati ai twerk di Rihanna e Miley, non possiamo lontanamente immaginare quanto, negli anni ’50, le mutandine delle fan del Re, gocciolassero per un semplice giro di bacino o per un molleggiamento di gambe in più, preannunciando la possibilità (ormai triste realtà di mercato) di creare un prodotto discografico contando sulla sola forza degli ormoni. Erano milioni le ragazzine a gridare per Elvis. Di giorno guardavano Fonzie fare “HEY”, di notte sognavano Presley cantare “babe”. Questo facevano le teenagers americane degli splendidi anni ’50.
Quello che è certo è che il modo che Elvis ebbe di concepire la performance si inserì nella cultura della musica in maniera indelebile e batté la strada alla permutazione del Video come nuovo modo di fruire la musica (che farà la sua fortuna negli anni ’80 con MJ).

Per questo Venerdì sera, dedicato alla musica, vi consigliamo dunque l’ascolto di un brano che apre le porte di Hollywood ad Elvis: Love me tender.
Per la canzone venne adottata la melodia del brano tradizionale Aura Lee (o Aura Lea), ballata sentimentale dell’epoca della Guerra di Secessione scritta da George R. Poulton e W.W. Fosdick, pubblicata nel 1861. La canzone fu accreditata a Presley e Vera Matson soltanto per ragioni di diritti d’autore, poiché il principale autore del testo in realtà fu Ken Darby (il marito della Matson).

Il singolo raggiunse e mantenne la prima posizione negli Stati Uniti per cinque settimane.
La rilevanza di Elvis nel mondo della musica ha fatto sì che molti dei suoi successi venissero ripescati da artisti e producer, per essere nuovamente incisi e distribuiti. Gli omaggi ad Elvis sono tantissimi e consigliarne uno piuttosto che un altro potrebbe rivelarsi problematico. Per citare l’ultimo nome famoso che ha reso omaggio alla celeberrima ballata, nel 2014 Barbra Streisand ha pubblicato una versione del brano cantata in duetto virtuale con lo stesso Elvis, all’interno dell’album Partners.
Sicuramente, noi italiani siamo affezionati alla Love me tender registrata in due versioni differenti dalla grandissima artista italiana, Mina. Noi dunque vi consigliamo di sentirle entrambe. Sia quella del 1998 tratta dall’album Caterpillar, sia quella più recente, del 2012, inserita nella raccolta ” 12 – american song book”.

Il sabato noioso

Come abbiamo detto, celere si sviluppa un vero e proprio organo commerciale che orbita attorno all’immagine di Elvis. Il suo carisma e il suo personaggio sono insieme una miniera d’oro ed è evidente che i manager abbiano voluto forzare la mano ovunque riuscissero, tutto per dare più visibilità possibile al rampollo di un impero mediatico ancora da costruirsi. Compare dunque il volto di un giovane Elvis, il quale è già un cantante apprezzato ma non è ancora la leggenda che è destinato (o condannato?) a diventare, affianco ai nomi di Robert D. Webb, Richard Egan, Debra PagetE’ il primo ruolo importante da attore che Elvis Presley riceve, la prima volta sul grande schermo. E guarda caso, oltre ad essere uno dei personaggi importanti della pellicola ( anche se il suo personaggio muore prima della fine) , è infatti anche l’autore di una delle canzoni che compongono la colonna sonora. Fu proprio il 15 novembre del 1956 il giorno in cui uscì nelle sale cinematografiche statunitensi Love me tender. 

La pellicola si tratta di un western con degli inserti musicali. In America, la 20th Century Fox, all’inizio voleva intitolare la pellicola The Reno Brothers ma si optò per il titolo Love Me Tender per richiamare alla riuscitissima canzone di Elvis Presley.
Elvis nel film interpreta Clint Reno, il più piccolo di quattro fratelli e l’unico a non essere andato a combattere nella contemporanea Guerra di Secessione. Il film presenta le tipiche tematiche care al western americano e quello che risalta di più (ovviamente) è la cura con cui viene studiato il personaggio che viene interpretato da Elvis. Clint muore poco prima della scena finale: dopo essersi pentito per aver ferito il fratello, si espone al fuoco nemico e muore benedicendo la coppia formatasi dall’unione di Vance (fratello di Clint) e Cathy (ex compagna di Clint e movente del litigio).
Nell’estate del 2006 negli USA viene rilasciato un re-master del film in versione DVD con contenuti extra, omaggianti al Re.
Non possiamo consigliarvi un drive-in per ovvi motivi, ma siamo certi che l’atmosfera western e il giovane volto di un Elvis non ancora famosissimo riusciranno a trasportarvi indietro nel tempo. Se non bastasse, una bottiglietta di vetro Coca-Cola potrebbe essere d’aiuto.

La domenica mattina noiosa

Certamente per sezionare la figura di Elvis Presley e comprenderla nei suoi angoli più oscuri e dubbi, è impossibile  non accennare all’ infanzia difficile e alla condizione di povertà in cui versava la famiglia di Elvis. Le persone che orbitavano attorno a lui, sapevano che Elvis proveniva dalla miseria e non poteva quindi avere grosse aspettative circa quello che stava facendo. A dimostrazione di questo, il fatto che il Colonnello arrivò a chiedere, per i suoi servizi da agente, il 50% di quanto Presley guadagnava vendendo dischi e performance come commissione. Elvis nasce infatti a Tupelo nel gennaio del ’35 nello stato del Mississipi e sopravvive alla morte del gemello Jesse Gaaron Presley, che morì appena nato. Il padre, di origini scozzesi, non possedeva un lavoro fisso e dunque fu costretto ad una vita di sacrifici per mandare avanti la famiglia. L’ambiente in casa Presley trasudava Cristo e religiosità; Elvis fa quindi il suo primo incontro con la musica proprio in occasione di una delle riunioni spirituali a cui partecipavano i genitori e viene educato con precetti cristiani. Cresce in un quartiere confinante con un quartiere afroamericano, sviluppando una certa confidenza e simpatia nei confronti del popolo di colore americano. Fino al ’56 sono tutti, o quasi tutti, concordi nel dire che Elvis è simbolo di unione e integrazione. Nel ’57 un giornalista iniziò a far circolare la voce che Elvis avesse avanzato dichiarazioni denigratorie a discapito della comunità afroamericana. Si diceva che Elvis avesse detto: “L’unica cosa che possono fare quei negri e comprare i miei dischi e lucidarmi le scarpe.”. Elvis smentì sempre quella frase e le persone più vicine a lui non hanno mai vacillato nel sostenere che Elvis Presley, il re, fosse in realtà un buono, un semplice. Il che è perfettamente compatibile con ciò che sappiamo essere il contesto culturale e geografico di Elvis e, assolutamente da non dimenticare, con quelle che sono state le scelte artistiche dello stesso Elvis, che ha sempre ammesso apertamente di avere un incolmabile debito nei confronti della musica nera.
Ciò che abbiamo quindi pensato come momento letterario, per chiudere questa finestra su Elvis a cui ci siamo affacciati per tutto il weekend, è il romanzo che apre i ’50s e racchiude all’interno delle proprie pagine un ritratto dell’america meridionale così fedele e amorevole da farcene avere nostalgia, pur non avendola mai magari vista o vissuta. Parliamo di Requiem for a nun di William Faulkner.
Nel romanzo viene descritta la mitica contea di Yoknapatawpha (proiezione ideale del Mississippi ed emblema di tutto il Sud) che è poi lo sfondo costante di una ventina dei romanzi del fu premio nobel. Il Sud visto da Faulkner è una regione chiusa in cui la tempesta e la polvere della guerra di Secessione sono passate provocando una ferita che niente potrà mai guarire: le antiche famiglie aristocratiche vivono inutili a sé stesse e agli altri nelle vecchie case che crollano come sotto il peso d’ una maledizione (L’urlo e il furore, The Sound and The Fury, 1929). L’equilibrio, una volta rotto, non si stabilisce più, e in un clima saturo di cariche esplosive, i conflitti si acutizzano, primo fra tutti quello razziale (come in Santuario, Sanctuary, 1931 e Luce d’agosto, Light in August, 1932). La costanza nei temi non è disgiunta da un impegno espressivo che spesso trae origine da una ricerca tecnica esasperata derivata da un’esperienza culturale di altissimo livello. Faulkner ci offre sicuramente uno scorcio di quello che era l’America di quegli anni, quali le preoccupazioni di un popolo in costruzione, quali le paure di un altro appena affrancato, quali i problemi di una nazione che si appresta a diventare “splendida”, e rimanerlo per almeno due decenni.
Le pagine del romanzo ospitano una delle frasi più celebri dello scrittore americano: “The past is never dead or buried. It is not even past”. E questa stessa frase viene citata da Obama nel 2012 durante un discorso tenuto circa le discriminazioni razziali alludendo al risentimento che le comunità afroamericane provano ancora nei confronti di alcune comunità bianche.
Vi diamo appuntamento alla prossima settimana per il prossimo #retroweekend e vi ricordiamo che i colpi di genio, le grandi idee, non provengono mai da un baccanale, ma quasi sempre dalla noia di una stanza vuota.

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