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L'esordio alla regia di George Nolfi, screenwriter, si lascia apprezzare per la notevole capacità visiva, grazie alla mano di un veterano come John Toll, ma il colpo è fallace laddove si incontra Philip K. Dick e la commistione tra fantasy e romance non trova una propria stabilità reale, edulcorando trovate narrative di peso e concentandosi eccessivamente sulla storia individuale dei due protagonisti. Il duetto Damon-Blunt funziona alla grande, la sintonia è perfetta, i tempi recitativi affini. Ma la prevedibilità è dietro l'angolo e il risultato è una confezione formalmente ineccepibile con contenuto decisamente inferiore alla attese e al nome del marchio letterario che porta.
Trovarsi di fronte ad un esordio alla regia di uno screenwriter è causa automaticamente di un pregiudizio. Ci si interroga sulla capacità generica di uno sceneggiatore di riuscire ad essere un regista adeguato. "I guardiani del destino" sfata quest'ottica di base, anzi la capovolge. Nolfi, alla prima regia, riesce a portare a casa il risultato attraverso un attento lavoro di direzione complessiva, soprattutto misurandosi con una raffigurazione di certo non facile e ormai inflazionata, il contatto con la New York moderna, raggelata con eleganza e vista nel suo maestoso contrasto tra vecchio e nuovo, architettura razionalista e piccole cellule di matrice organica che la rendono un fiore all'occhiello. Il problema è un altro ed è affrontabile secondo due angolazioni diverse. Nolfi, infatti, sceglie di misurarsi con un autore di una complessità nota, quel Philip K. Dick che ha rappresentato il fantasy del Novecento, i cui testi sono diventati adattamenti cinematografici quasi mai riusciti (e in particolare ricordo l'esperienza traumatica con "Next" e il viaggio oltreoceano di John Woo in "Paycheck"). Nolfi, in questo modo, non si mette al riparo dalle critiche da parte di chi vede nella trasposizione un evidente limite artistico, anzi decide (ed ecco il secondo motivo di insuccesso parziale) di trasformare una riflessione totalizzante sul libero arbitrio e l'essenza dell'uomo in una storia individuale chiusa in sè stessa, omettendo il senso profondo del testo originale trasformando il tutto in un'opera a varie velocità e diciture, tra aplomb perfetto, commedia sofisticata e action pura, con il fantasy a fare da sfondo. Il processo è noto e si può definire un tipico caso di adattamento "americanizzato", soggetto ad un processo di semplificazione molto diffuso ad Hollywood. L'intera narrazione, quasi liberata del tutto da riflessioni pseudo-filosofiche, diventa un buonista incontro tra due anime, interpretate da Matt Damon ed Emily Blunt. E il vero piatto forte del film è la grande compliicità tra i due attori, che consentono di migliorare la qualità di situazioni tipiche della "sophisticated comedy" e danno vita ad un rapporto davvero intenso e affiatato. Gli altri personaggi ne risentono notevolmente e l'accentramento individuale comporta, inoltre, una flebile definizione dei characters di contorno, siano essi importanti o meno ai fini narrativi. "I guardiani del destino" merita una visione, anche se, forse per una certa piattezza e mancanza di colore, non convince mai realmente.
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