Magazine Cinema
Film in bilico costante tra originalità e ovvietà, autoreferenzialità e "unpolitically-correct", "Un perfetto gentiluomo" è un prodotto strano, sinonimo di un cinema indie che si orienta verso un miscuglio di tradizione e spunti "moderni", diventando un'opera simbolo della crisi irrisolta che affligge la produzione americana. Ma più che un semplice simbolo, è un manifesto da cui ripartire.
Dall'alto della sua imperfezione, della sua articolazione a scatti, priva(ta) dei nessi causa-effetto tanto cari agli sceneggiatori moderni, una pellicola come "The extra man" è un po' l'alieno in un mondo di terrestri. Eppure, a ben guardare, al di là della stranezza della situazione, dei personaggi, dello schema aperto e antifinalistico della costruzione narrativa, le differenze con una normale commedia con punte di cinismo e qualche barlume di inventiva non sono così incolmabili. Ma "The extra man" è un incrocio di tanti incroci (e pensate proprio alla cartina stradale di una città), il punto di incontro della tradizione "molleggiata" della commedia classica più paradossale e il fremito sessuale della nuova tradizione by Apatow e affini. Per certi versi, è la dipartita della commedia, per altri la sua rinascita, per altri un suo riaggiornamento. E, allo stesso tempo, è un film indie, realizzato da due artigiani mancati come Shari Springer Berman e Robert Pulcini (autori di ibridi come il meta-cine-fume-letterario "American splendor") che non aspira a creare nulla di veramente alternativo (e proprio in questo sta la sua "indipendenza"), mancando di argomenti shock, di gusto europeo per il sesso (giustificato dalla componente "autoriale") e di gusto americano per l'american-way-of-life (giustificato dal campanilismo nazionale). Anzi, già nella stessa location, nella scenografia "ambigua", nel vestiario elegante, nello scambio di battute tematiche (dice lei, Katie Holmes: "Talvolta mi ricordi un tipo di un'altra epoca, degli anni '20", risponde lui, Paul Dano: "Buffo che tu lo dica. Adoro quel periodo") c'è una traccia chiarissima di fusione tra due mondi distanti, quello di un classicismo "letterario" e di un modernismo "societario" che rendono i personaggi dei "fuori dal mondo", qualunque esso sia. Basti pensare al confronto (a cena) tra la Holmes e Dano, appunto, in cui il campo/controcampo, l'atteggiamento dei due stessi protagonisti, l'uso di un certo linguaggio e di un'attitudine più o meno "gentle" fa intendere molto in proposito. Lo scontro diventa un incontro in una concezione relativa del tempo. Se considerate la passione gerontofila dell'altro protagonista, Kevin Kline, il suo "medievalismo" sessuofobico, il suo dandysmo bohemien, e magari aggiungete il "film-mentale" color seppia che si paventa spesso nell'immaginazione dell'aspirante-artista, il gioco (analitico) è fatto. "The extra man" sceglie volontariamente e caparbiamente di svincolarsi dal cinema presente, di associare epoche diverse e di omogeneizzarle (senza eccesso e senza immediatezza), di unire cinema indie a classici popolari, senza perdere di vista il senso totale dell'operazione, ovvero l'essere un prodotto vintage ma anche post-moderno, difficilmente vendibile e dalla consistenza volutamente sfumata, sfibrata, in costante bilico tra il "tutto" e il "nulla". "The extra man" è, infatti, un prodotto artiginale in un mondo meccanizzato. E la sua atipicità sta anche in questo. Chissà sia un punto di (ri)partenza per il prossimo futuro. Io lo spero.
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