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Riot

Da Miwako
RIOT
"Dove te ne vai con quegli occhi tristi e pieni di cose che nessuno sa? Hai un livido sul collo, sembra che qualcuno ti abbia succhiato via l'anima." Me lo sento domadare a bruciapelo, da una voce fin troppo familiare. Trafitta da lamette alfabetiche che sanno esattamente dove tagliare per vedere sangue arterioso, scruto quei suoi grandi occhi castani senza rispondere, senza smettere di fissarli. Ci leggo una tristezza simile alla mia, vicendevolmente incolmanibile. Quo vadis? Da nessuna parte. Resto. Immobile. Trattengo il fiato per capire se quel sibilo assordante viene dal mio corpo o dal suo esterno. Viene da dentro, decisamente. Soffia muto come una perdita di gas, silenziosa ma pestienziale.Sono una donna tutta di pezza, che s'impregna dell'odore del caffè della mattina, che rimane molle fino al midollo quando la pioggia la bagna, che si lascia attraversare dalla corrente quando arriva un fulmine. Come se non avessi scelta. Come se tutto il male che si può sentire fosse la catarsi necessaria a trovare un punto di ripristino. Come la fenice.
Parlo molto, uso un sacco di parole, troppo sale nella mia dieta, troppi aggettivi nelle mie frasi, troppi silenzi inattesi, a strapiombo.
Silenzi. Pieni. Straripanti, grondanti, traboccanti. Se questi silenzi potessero parlare, quante cose avrebbero da dire. Li ascolto urlare per tutti i segreti che li obbligo a tenere. Bussano da sotto le travi di legno, come il cuore rivelatore, ronzano come un pugno di mosche nelle orecchie un attimo prima di svenire, scricchiolano come le scale di vetro in frantumi che conducono fuori dai sogni.
I nervi tesi, gli occhi saturi, la bocca piena. Cose che non vogliono uscire per il timore di ciò che potrebbero causare, per la paura della loro vacuità forzata, della loro importanza negata.
I segni ancora addosso, sul cuore, sul corpo; le mani intrecciate, la felicità terribile di un momento, l'ineludibilità delle leggi non scritte, gli occhi che scavano negli occhi, che si fermano ad un soffio dal punto nevralgico che da senso a tutto questo, che ci ha portati fino a qui, attraverso un sentiero che conosciamo solo noi.
Mi si chiudono gli occhi, le ultime 24 ore sono state decisamente dense e sovraffollate; i lasciti di uno tsunami emotivo mi si aggrovigliano addosso senza sosta, senza inizio e senza fine, come le alghe del mare. Ed io non riesco a dire niente di quello che vorrei. Il bisogno di urlare è sopraffatto dal bisogno di attaccarmi a questi silenzi, come all'unica cosa immutabile su cui io possa fare affidamento: la mia incapacità di parlare di ciò che sento. E non perchè son cose che stanno bene dove sono, piuttosto per il timore del riot emotivo che prenderebbe voce e vita, per quel muro di mare che come nessun altro so alzare; io, così saggia da essere ingenua, vittima di dinamiche che ho sviscerato e condannato incessantemente, figlia di quegli stessi angoli ottusi e astrusi che ho cercato di scalfire a testate.
Respiro. Riprendo il controllo. La notte è sempre buia, indecifrabile e, proprio per questo, rassicurante. Io domani non sarò più la stessa. Già ora, mentre scrivo queste ultime righe, non sono più la stessa di un'ora fa, quando ho iniziato questo soliloquio delirante. Ci sono un paio di cose che ho capito, un paio di cose che è il momento di dire. Ma rimandiamo a domani, a quando non sarò più quella di oggi.

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