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Risorto (Kevin Reynolds, 2015) – Recensione

Creato il 13 marzo 2016 da Paolo_ottomano @cinemastino

Pochi giorni ancora e sapremo se sarà stata una buona idea distribuire un film come Risorto nei pressi della Pasqua: insieme alle probabili repliche televisive di pellicole già note, ficiton recenti o sceneggiati più maturi, anche il cinema - com'era successo con La passione di Cristo, per esempio - darà il suo contributo all'atmosfera d'inquietudine mista a sollievo esistenziale che caratterizza la settimana santa e i giorni che la precedono.

Ancora una volta, al centro della narrazione c'è il cosiddetto mistero della fede: dopo la morte di Gesù (Yeshua / Cliff Curtis), il suo corpo viene riposto in un tumulo e messo sotto chiave con i sigilli di Roma, per evitare che una sua resurrezione - strumento di propaganda per i suoi seguaci, secondo i rabbini più potenti - possa incrinare i rapporti tra il governo centrale, la provincia della Giudea e gli stessi rabbini. Il tribuno Clavio ( Josehp Finnies) è incaricato dal procuratore Ponzio Pilato ( Peter Firth) di vigilare su questa situazione delicatissima, ossessionato com'è dall'irritare l'imperatore dimostrandosi incompetente. Proprio mentre si lava le mani, dopo la crocifissione di Cristo, Pilato illustra il compito ingrato a Clavio, che trova il modo di sgravarsene a sua volta obbligando il giovane Lucio ( Tom Felton) a compiere il lavoro sporco. Disseppellire corpi e rovistare tra i cadaveri ancora nelle fosse comuni, appena schiodati dalle croci, per trovarne uno che assomigli a Gesù. Le sue spoglie, infatti...

Il vero mistero di Risorto, messa da parte la quasi mono-espressività facciale di Joseph Finnies, è questo: com'è possibile che un film partito da una prospettiva originale, rispetto ad altre variazioni sul tema, possa comprendere una prima parte davvero promettente e una seconda parte così scontata, che scivola rapidamente nell'anonimato e gronda la peggior retorica escatologica?

La prima metà del film, infatti, si presenta come un peplum-noir: l'esecuzione di Cristo viene raccontata come un omicidio politico qualunque, del quale bisogna far dimenticare al più presto l'accaduto. Non devono rimanere tracce a suffragio dell'eccezionalità di Yeshua, predicatore sopra le righe in testa a un gruppo ancora timido di seguaci. Il registro narrativo, però, deraglia non appena Clavio comincia a dubitare di sé, dei suoi occhi, della sua capacità di ragionare.

Constatare la presenza anche fisica di Gesù davanti ai suoi stessi occhi, scettici fino a poco prima, smonta le indagini compiute fino a quel momento, peraltro sostenute solo da testimonianze pagate e voci di corridoio, oppure parole pronunciate in preda all'estasi. Non è infrequente che un personaggio muti energicamente, nel mezzo di una narrazione. A un cambiamento tanto radicale, però, dovrebbe corrispondere una rappresentazione che lo sappia indagare al meglio.

Ciò cui assistiamo, invece, è l'arrendevolezza ingiustificata di un detective, infiltrato e subito ammaliato dal carisma del profeta. Funzionale al racconto di quel cristianesimo ma quasi letale per la credibilità della storia, minata pure dal tentativo maldestro di inscenare le apparizioni e sparizioni di Gesù. Il Figlio dell'uomo è in mezzo agli uomini, parla con loro, poi ti giri un attimo e non c'è più, come in una replica autoironica del Sesto senso: è questo il modo migliore per raccontare la metafora di una presenza spirituale, di un motivo sovra-umano che consenta a un gruppo di sventurati di affrontare la povertà, la guerra, una vita grama? Cosa rimane del mito? Forse è successo quello che già scriveva Joseph Campbell, nei suoi saggi certosini e illuminanti: quando provi a rendere troppo realistica una narrazione mitologica, a calarla profondamente in un contesto storico e sociale - la colpa, comunque, è anche dello stesso Vangelo - la privi della sua forza originaria, che le aveva permesso di sopravvivere tanto a lungo. Risorgere, poi, è difficile.


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