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Ritorno a Londra

Creato il 05 agosto 2012 da Albix

Ritorno a LondraCapitolo VIII

The Big Boss

Fuori il fumo della mia sigaretta si unisce a quello più intenso degli scarichi delle automobili, arrestandosi un po’ più in alto su una fitta barriera di nebbia con la quale forma una cappa plumbea che sembra avvolgere la città, isolandola dal resto del mondo, quasi come un castigo degli dei alla superbia ed alla sufficienza di noi stolti e piccoli esseri della Terra.

Per fortuna l’ufficio non è lontano e là dentro mi sembra già di respirare meglio.

Terry mi saluta con un grande sorriso, come sempre, quando mi vede. Anche la segretaria, con la quale ci sentiamo quasi ogni giorno per telefono, sembra di buon umore. E’ una bionda,  un po’ slavata per via degli anni non più tanto verdi. Ma i suoi occhi sono senza età ed animano un corpo che, anche stamattina, più che mai, emana un notevole “sex-appeal”, avvolto com’è in un vestito bianco, attillato sulle forme flessuose.

La seguo nello sgabuzzino, sul retro dell’ufficio, rincorrendo le sue parole di circostanza: il boss che ha mandato i vassoi delle paste, il thé da preparare, come vanno gli affari, come stai………

La voce di Sharon mi riporta indietro nel tempo. Avevamo avuto una storia breve ma intensa.

La nostra intesa era stata  solo e soprattutto sessuale, il che non è poco, anzi forse è quasi tutto. Comunque  andò così: lei mi aveva detto, una volta, non senza malizia, di un suo ragazzo italiano dal sangue caldo e della sua nostalgia per le sue “performances” erotiche. Le avevo risposto, assecondandola con  scherzosa malizia, che per essere certa   di avere avuto un maestro, avrebbe dovuto avere un termine di paragone; mi prese talmente sul serio che un fine settimana ce ne andammo insieme nel Kent, in una casa di campagna che  non ricordo più  di quale zia o di quali amici suoi. E si sa che il tempo da passare fuori, nella campagna inglese, è poco. Pessima cuoca, ma grande donna, materna, generosa, semplice, sincera, priva di quei tatticismi e di quei calcoli che fanno parte del bagaglio antropologico di tutte (o quasi tutte) le femmine, soprattutto di quelle che cercano marito (e chiunque non ce l’abbia già, lo cerca sempre).

E’ intelligente, di una intelligenza primitiva e positiva, senza fronzoli sentimentali di qualsivoglia natura e senza controindicazioni filosofiche, religiose o sociali.

Buffa davvero la vita. Al tempo ero  io ad attirarmi delle bonarie prese in giro a causa delle mie meditazioni di natura esistenziale.  Adesso c’è con me Martine, che filosofeggia malinconica e triste, talvolta addirittura lugubre, sul significato della nostra misera esistenza ed io a scherzare, cercando di tirarla su, sminuendo, sdrammatizzando, come faceva allora Sharon con me……I miei pensieri vengono interrotti dall’arrivo di Terry.

-“ Allora come vanno le cose a Leicester Square?” – mi chiede, prendendo una tazza di thè dal mio vassoio, non senza avermi caldamente ringraziato.

-“ Non c’è male”- rispondo – “dovresti portarmi un po’ di bibite, sai, le ho quasi finite.”

Con lui c’è Bob. Sono amicissimi, dall’infanzia, trascorsa insieme, là su, nell’East End London, in quei quartieri dalle case a schiera, tutte uguali, chiamate “ Council’s Houses”, circondate dal grigiore del cemento di altre case, impregnate dal puzzo di urina, smaltita per strada, talvolta negli androni, all’uscita dai pubs, quando l’inflessibile, cronometrica, sofferta serrata che l’Alcoohl Dispenser Act fissa improrogabilmente alle 23,00, impedisce agli avventori più solerti nel procurarsi l’ultima pinta di servirsi dei servizi igienici. E dopo lo squillo del terzo campanello, è impedito a chiunque di soffermarsi un solo minuto di più all’interno del pub. E si viene inevitabilmente  catapultati fuori con la vescica ancora piena.

Puzzo di urina   che si mischia agli odori di una cucina a base di frittura e ad altri odori non meglio identificabili che avvolgono quegli edifici in una coltre di odori nauseabondi, sopportabile, per assuefazione,  soltanto da chi, in quei posti, ci sia nato.  La monotonia del paesaggio urbano, in quel quartiere, è spezzata solo da qualche minuscolo parco, più rari e meno curati che in centro; sui lunghi muri di mattoni rossi, capeggiano vistose scritte di vernice nera: “Sex Pistols”;   “Sid Vicious rules”; Arsenal leads the League”; Tories go devil”; “Fuck you all!” e così via.

Hanno cominciato entrambi come venditori, poi Terry, più ambizioso e capace, si è fatto strada; ora, in azienda, è il numero due, primo dopo Ben Brook, il Boss.

Gira con il suo furgone e rifornisce i punti vendita, aiutato dal suo braccio destro, uno scozzese di nome Ivan; e quando non è in giro, lavora in ufficio. Vita dura, da emergenti. E’ simpatico, però. Non vuole farsi strada con arroganza o rompendo le balle ai dipendenti: è cortese, anche al di là e diversamente dalla fredda e formale cortesia inglese. La sua è piuttosto una rude cortesia di estrazione cockney, oserei dire; rude e sostanziale.

Mi presenta la sua “girlfriend”, una brunetta di classe, con un sorriso timido e accattivante. C’è anche Alan, il fratello maggiore di Bob, uno spilungone che parla uno “slang” londinese doc e che mi fa sempre, nelle rare occasioni in cui ci incontriamo, dei giochi di parole impossibili a capirsi  per uno straniero. E Bob, tra le risate generali che tali scherzi suscitano tra i presenti, cerca, non senza imbarazzo e difficoltà, di spiegarmi.

Fra una battuta e l’altra trova anche il modo di lamentarsi perché c’è soltanto il thè da bere,  nonostante il  Boss, a suo dire, sappia benissimo che a lui piace la birra.

E’ trasandato alquanto nel vestire, al contrario di Bob e della sorella Marion, una piccoletta molto graziosa e ordinata che riesce a conferire, con il suo dolce parlare, dignità e armonia, anche allo scomposto dialetto londinese.

Per stare allo scherzo dico ad Alan che da piccolo, al mio paese, le toppe ai pantaloni come quelle che porta lui, le chiamavano “televisioni”.

Rideranno per settimane di questa mia “boutade”, quasi quanto risero per quella che feci una volta, litigando per una questione di lavoro, con un troppo pedante e maleducato netturbino, al quale, traducendo quasi letteralmente dall’italiano,  minacciai in tono arrabbiato: “I break your neck!”.

Stamattina c’è anche Osvald, uno studente universitario un po’ cicciottello e gioviale che lavora per la Compagnia solo per qualche settimana all’anno.

C’è Tony, nome maschile, ma grande femminilità: è bella come un angelo che ti appaia in sogno. Ha fatto il tirocinio con me; è anche sensibile e intelligente; mi piace da matti. Peccato che, come mi ha confidato durante i tre giorni in cui ho cercato di insegnarle quel poco che ho a mia volta imparato dai miei istruttori sulle macchine e sui gelati, stia vivendo un amore tanto forte quanto contrastato con un ragazzo di colore, fortunato lui, il fratello nero, che si gode una così illuminante compagna.

Anche Mark è uno studente universitario; sta ad Ingegneria, come Osvald, ma è diverso, nel carattere e nell’aspetto. E’ il tipo inglese del Devonshire: longilineo, biondino, dalla pelle chiara e gli occhi azzurri, con il naso affilato, le labbra sottili e il mento volitivo. Ha una flemma davvero invidiabile. Non si scompone neppure oggi; anzi, oggi meno che mai. La sua familiarità nel salutarmi è compassata ma non scostante, affabile ma non calorosa, signorile ma non per questo fredda. In lui ammiro un autentico “gentleman”  inglese.

-“Venerdì sei invitato anche tu al party per il mio compleanno”- mi fa Bob- “Non mancare perché ci saranno anche molte ragazze carine”.

-“Like the blue ones?”- gli faccio io per scherzo, alludendo al fatto che Bob, al lavoro, quando vede passare  una ragazza che gli piace, le fischia dietro, indirizzandole variopinte espressioni, fra cui ricorre spesso “Hey, blue!”, intraducibile ma eloquente espressione di ammirazione tutta anglosassone.

-“Caso mai, dopo la chiusura, possiamo andare tutti insieme con il furgone !”- propone Terry.

-“Sennò vieni da me, su a Oxford street, e si va insieme in treno”- aggiunge Bob con gentile insistenza.

-“Qual è lo scopo preciso di questa riunione, dunque?”- dico a mia volta, dopo aver assentito con lusinghiero imbarazzo alle loro profferte.

-“E’ quello di tenere le vacche oltre il cancello!” – mi fa Alan di rimando, dal suo stabile appoggio, a cavalcioni di una delle due scrivanie che si fronteggiano nell’ampio ufficio.

-“ Cosa significa?”- chiedo al fratello Bob che, come il resto della compagnia, si sta scompisciando dalle risate.

-“Niente”- interviene  Terry,  che non volendo o non  potendomi spiegare la bizzarra espressione in cokney dell’eccentrico personaggio, preferisce riemergere nella sua veste professionale, guardando l’orologio – “ E’ una riunione che facciamo ogni anno a metà stagione. Un incontro così, per conoscerci meglio. Ne avremo anche degli altri. Ben ci tiene ad avere dei contatti con le sue maestranze.”

Così dicendo, Terry lancia il suo sguardo acuto sul cortile prospiciente l’ampia vetrata. Come evocato dalle sue parole, eccolo scendere con un balzo atletico da una fiammante Range Rover di colore bianco. Ben Brook, il Boss, il Numero Uno, il Grande Capo, il Padrone, come lo definisce con ammirazione Terry di volta in volta.  E’ un uomo sui quarantacinque anni, massiccio, dal colorito bruno, affabile nei modi ed alla mano, nonostante sia evidente nel suo agire, il tratto deciso di chi ha il tempo contato ed intenda farlo fruttare al massimo. Ingenuamente gli osservo il naso: questo perché Bob, parlandomi di lui, tra le altre cose, più o meno insulse, mi ha sottolineato il fatto che è “Jewish”, accompagnando la parola con un gesto della mano destra, chiudendone le cinque dita all’altezza della punta del naso, quasi ad indicare un’immaginaria propaggine che lo rendesse più lungo, senza peraltro che nella sua voce cogliessi alcun accento particolare, se non una modulazione, quasi un abbassamento del suo tono, come quando si dice qualcosa e non si vuole che altri, oltre all’interlocutore, possa udirci.

Terry mi presenta il Boss, sottolineando il fatto che sono italiano, come le macchine dei gelati. Ben Brook mi dice che ha sentito parlare molto bene di me, sin dalla passata stagione, quando non ebbe modo di conoscermi. Contraccambio il suo sorriso cordiale, chiedendomi se la mia presenza sia un caso oppure una specie di promozione.

La riunione acquista una certa ufficialità quando, finiti i convenevoli di rito, il Boss si siede alla scrivania principale, quella a ridosso della vetrata, in fondo alla sala.

Parla brevemente, raccomandandoci la massima cura nella tenuta della pulizia delle macchine e del posto vendita ed istituendo un premio settimanale di 5 sterline per il punto vendita più pulito.

Parla poi di programmi a breve, a medio e a lungo termine; e già il discorso non mi interessa più. Conclude dicendo che organizzerà una grande festa a fine stagione e si dichiara a nostra disposizione per ogni e qualsiasi problema, per il tramite di Terry, il suo valido e capace manager. Prima di andar via si intrattiene ancora un po’, sulla soglia, con Terry, che lo ascolta, penso, come Mosè deve avere ascoltato il Padreterno sul Monte Sinai.

Poi lo vediamo rimontare sulla sua auto fuoristrada. Ci fa un rapido gesto con la mano, concludendo la manovra di uscita dal parcheggio e riparte, roboante, ai suoi numerosi affari: so che oltre ai gelati, è socio in numerose attività commerciali e finanziarie. Un grande uomo, una personalità emergente, come sussurra Terry nel contraccambiare con la mano il suo lontano commiato.


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