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Robert Altman e il "lungo addio" al cinema noir

Creato il 04 settembre 2011 da Ghostwriter
Il lungo addioQuesto film di Robert Altman, Il lungo addio (1973), è un'esperienza strana per lo spettatore di oggi.
A me, almeno, ha suggerito diverse cose che non hanno tanto a che fare con la trama (non esaltante) nè con la filmografia di Altman - aspetto, quest'ultimo, abbastanza "dissacratorio" nell'ambito di una recensione: Il lungo addio, per dirla tutta, mi sembra una specie di corpo alla deriva, in più sensi, nell'immenso set notturno e acido di Altman.

Sul piano puramente descrittivo: Elliot Gould impersona il detective Philip Marlowe ("un nome d'attore" gli rinfaccia l'ispettore di polizia nella scena dell'interrogatorio) coinvolto in una storia di omicidio e di soldi sporchi messa in piedi dal suo "caro vecchio amico" Terry...Costui viene trovato morto, neanche a dirlo, in una terra di confine immancabilmente messicana e Marlowe deve risolvere il mistero dopo essersi fatto tre giorni di galera.
Risolverà l'enigma, ma prima deve...dare da mangiare al gatto schizzinoso, affrontare i problemi coniugali della bella Eileen Wade e di suo marito (il bravo Sterling Hayden), uno scrittore alcoolizzato che va e viene da una clinica privata di cui è succube, e visto che c'è il detective deve anche passare a comprare, alle tre del mattino, una confezione di torta per le sue allegre (e sessantottine) vicine di casa. Non è una trama ortodossa, ma non è nemmeno un film ortodosso...E il modo in cui lo sto raccontando lo è ancora meno.
Diciamo, per semplificare, che è la parodia del noir nella quale anche Altman è caduto, ben prima di Tarantino, non senza un suberbo talento per la scena (fantastiche le situazioni con il gangster e la sua banda dalla schizofrenica eleganza), sempre nel tentativo di giocare con il dispositivo-cinema di genere e tirarne fuori qualcosa di "freddo", acuminato e ironico che è poi lo sguardo di Altman, come si dice la sua marca. Ogni tanto il ritmo del film rallenta in modo eloquente, nel senso che comprendi che stai guardando un riflesso, come un televisore in uno specchio...Chandler è presente più o meno come Edgar Poe in Tim Burton, vale a dire senza angoscia e come "attraverso uno specchio" (L.Carroll).
Come giustamente si scrive anche su Cinemascope: "Gli snodi fondamentali della trama (la morte dell’amico, le importanti conversazioni con la moglie dello scrittore, la rivelazione finale) vengono deliberatamente messi in secondo piano per privilegiare atmosfere, dettagli, particolari marginali, situazioni all’apparenza insignificanti: in quest’ottica, i primi dieci minuti – bellissimi e fondamentalmente inutili – sono un piccolo compendio di tutto il film".
A parte tutte queste cosette da Morandini & Mereghetti (in Rete trovate molte recensioni impeccabili, a differenza della mia) c'è anche dell'altro: qui entriamo in quella zona di confine tra la storia dello spettatore e il cinema "come Arte" che produce sempre degli effetti interessanti. Nel caso, poi, di un film del genere è d'obbligo spostare lo sguardo fino agli atomi più modesti della visione...Per esempio la fotografia devo dire che mi ha sconcertato: a parte la scena sulla spiaggia, celebrata anche dai critici, il resto lascia perplessi...Questioni di budget, probabilmente. A meno di non considerare l'immagine "cruda" un segno di per sé.
Poi c'è la biondissima Nina van Pallandt che sembra appartenere ad una precisa estetica californiana. La carnagione, in primo luogo: quel genere di donne che fanno chiaramente Immagine, che sono immagine come (si fa per dire) Sharon Tate. Scomparse dal cinema dopo gli anni Settanta, più o meno, qui ne ritrovo quindi il feticcio, come direbbe Barthes (e la tragedia di queste "figlie del Sole" finite sotto un riflettore troppo caldo). Feticci e simulacri convivono in questo omaggio a un autore scomparso, Chandler, che amava perdersi nei meandri di un romanzo come The Big Sleep dove spesso, nel mare del dubbio, è il volto di una donna a schiarirti le idee.

Particolari marginali. Ne Il lungo addio aleggia - almeno per me- qualcosa che sta a metà strada tra il ricordo puro e semplice e la pura visione (da cinema astratto, ovvero quanto c'è di più lontano da questo film): le ultime scene mostrano un esterno di città che, nell'insieme, sembra esattamente una fotografia scattata in una città notturna che ho già visto mille volte. Soltanto che non mi ricordo dove, forse era una visione dal vero ed è questo che è perturbante: la realtà di un riflesso. E' un esterno di città così "esterno di città" che ti lascia con la strana inquietudine del dejà-vu.  


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