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Roberto BuglianiQuestione a latere: la figura dell’Ulisse dantesco e la laicità di Dante

Da Ennioabate

 

ulisse di dante

I precedenti post sulla discussione partita dal “Discorso su Dante” di Osip Mandel’štam si leggono  in ordine ai seguenti link: 13 GENNAIO 2014 · 23:11; 18 GENNAIO 2014 · 12:32; 25 GENNAIO 2014 · 21:42; 1 FEBBRAIO 2014 · 12:14; 3 FEBBRAIO 2014 · 15:18. [E.A.]

@ Rita Simonitto

Vorrei intervenire a latere dell’intervento di Rita Simonitto (qui) sulla figura di Dante e il personaggio “controverso quant’altri mai” (Avalle) dell’Ulisse dantesco. In particolare, riassumendo le tesi d’un articolo pubblicato nel 2002 (e scusandomi per certa, inevitabile pedanteria) partirò da questa osservazione di Simonitto: “Ma Odisseo viene collocato all’Inferno anche perché ha osato essere ‘empio’, ovvero superare i limiti (rappresentati dalle mitiche Colonne d’Ercole), i confini tra l’uomo e Dio nella ricerca del conoscere come esperienza estrema.
Ma perché poi Dante affida proprio a Odisseo la celebre terzina in cui dice *”Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”*? Dante ci è o ci fa? O fa il finto tonto, o, come diceva Fortini veste i panni del ‘tonto’?”.Ora, è sull’anfibologia di questo “anche” che vorrei appuntare la mia attenzione, dicendo che dove Simonitto vede un duplice peccato d’Ulisse (l’empietà e la fraudolenza), io vedo una contraddizione.

La mia domanda dunque è: perché Dante, assegnando Ulisse nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, deroga dal principio metodologico, per così dire, su cui ha improntato la stessa Commedia, ossia quello di far raccontare alle anime dannate il peccato che è valso loro la condanna divina, e fa narrare a Ulisse del suo ultimo viaggio, “il folle volo” che gli ha procurato la morte, ma che però nulla ha a che vedere con il peccato di “facitor d’inganni” per cui è punito in eterno? Emblematico di questo metodo sono, ad esempio, Paolo e Francesca che, al canto V, raccontano la loro passione amorosa, ossia il peccato che li ha condannati nel cerchio dei lussuriosi.

Presentando a Dante le anime dannate di Ulisse e Diomede ravvolte in una stessa fiamma cornuta, Virgilio nomina solo la colpa d’Ulisse riconosciuta dalla tradizione (“l’agguato del caval”; Inf. XXVI, 58-63).. Ma il racconto del suo ultimo viaggio, allora, che ragione ha di conformare di sé il canto XXVI? Parrebbe estraneo, fuori-luogo rispetto alla punizione commutata a Ulisse e sancita dal suo trovarsi in Malebolge. Che Dante, dunque, sia stato “sbadato”?

Lo studioso Juri M. Lotman, nel saggio “Il concetto di spazio geografico nei testi medievali russi” (in Tipologia della cultura, Milano 1975), scrive che nel concetto medievale di spazio geografico incentrato sul rapporto polisenso fra terra, cielo e inferno, ogni viaggio “è marcato sotto il profilo etico-religioso. Non per niente, all’interno della letteratura medievale, la penetrazione dell’uomo nell’inferno o in paradiso è pensata come un itinerario, come uno spostamento nello spazio geografico”; p. 184). Per il pensiero medievale, dunque, l’esito del viaggio letterario è strettamente stabilito dai “meriti morali” (Lotman) del viaggatore, e tale determinismo è connesso al sistema dei valori morali dominanti, ossia a fattori extra-geografici che risultano essere delle costanti o invarianti diegetiche, al’interno delle quali s’apre un ventaglio assai stretto di soluzioni narrative. In altri termini, nel viaggio letterario medievale giungere in una terra “altra”, geograficamente sconosciuta e/o moralmente ingiusta, come anche far vela verso un luogo interdetto dal quale non si dà ritorno, presuppone, nel viaggiatore o nell’autore, un tipo di conoscenza diversa da quella propriamente geografica, e i cui presupposti si situano nell’ambito del sapere medievale d’ordine teologico. Ciò si spiega col fatto che la geografia nel Medioevo “non veniva concepita ancora come un ramo delle scienze naturali”, bensì “come una varietà della conoscenza etica” (Lotman, cit., p. 186 e p. 184). Pertanto, la “punibilità” del viaggiatore nella letteratura medievale era dovuta al suo non ottemperare le prescrizioni del codice morale, rappresentato dallo schema teologico: (viaggio) giusto VS peccaminoso.

Nella Commedia Dante sussume la “convenzionalità” del viaggio letterario medievale a doppia implicazione, giacché, come scrive Seferis,  il suo “vasto disegno” testuale è offerto “dalla teologia del suo tempo” (in Le parole e i marmi, Milano 1965, p. 147). Se ciò vale in senso generale, già per quanto attiene all’organizzazione semiologica dello spazio dantesco abbiamo a che fare, ci dice sempre Lotman (in “Il viaggio d’Ulisse”, Testo e contesto, Bari 1980, p. 92), con una “complessa dialettica del convenzionale e del non-convenzionale”, che modifica non tanto la concezione etico-religiosa nel suo complesso, quanto l’elemento a questa subordinato, ovvero la peculiare concezione della spazialità medievale. Lotman individua questa nuova gerarchia morale di tipo non convenzionale instaurata dalla Commedia nella collocazione dei peccatori nei gironi infernali. Nell’ordine del loro allontanamento dalla vista di Dio in relazione alla gravità delle colpe, che si differenzia dalla gravità attribuita loro in modo teologicamente prestabilito, Dante prevede gli eretici (VI cerchio) venire prima degli ipocriti (VIII cerchio), oppure gli assassini (VII cerchio) precedere i ladri (VII bolgia del girone VIII) o i falsari (X bolgia del VII cerchio), in quanto è l’uso dei segni fatto in vita dalle anime dannate a stabilire la gravità delle loro colpe e pertanto la loro collocazione. Dato che la natura dei segni consente di utilizzarli sia come mezzo di verità che di menzogna, “la rottura dei rapporti autentici fra l’espressione e il contenuto è peggiore dell’assassinio, perché uccide la Verità ed è fonte della menzogna in tutta la sua essenza infernale. Perciò c’è una logica profonda nel fatto che i peccati che consistono in azioni ingiuste siano considerati da Dante meno gravi dei casi di un uso falso dei segni” (Lotman, Testo e contesto, p. 92).

Ciò giustifica il fatto che Ulisse, il “facitor d’inganni” che ha consigliato ai greci la costruzione del segno mendace per eccellenza, il cavallo di Troia, allo scopo – per parafrasare Lotman – d’ingannare un popolo che ancora non conosceva la falsità e la doppiezza del segno, sia posto in Malebolge (VIII cerchio), ossia più lontano ancora dalla vista di Dio di quanto non lo sono, poniamo, i violenti contro Dio (III girone del VII cerchio). Detto questo, e siccome nell’Inferno dantesco la condanna che i dannati scontano è quella relativa al loro peccato “maggiore”, o emblematico, non essendovi un’unica pena per due peccati di natura diversa, che senso si deve attribuire alla morte d’Ulisse in seguito al “turbo” che inabissa la nave  dopo che l’ardito navigatore ha oltrepassato le colonne d’Ercole ed è giunto in prossimità della “montagna bruna” del Purgatorio (vv. 137-41)?

In Croce l’interpretazione del rapporto tra Dante e Ulisse e della natura del “turbo” è “indubitabile”. Scrive infatti in La poesia di Dante: “che Dante, ligio alla parola rivelata e agli insegnamenti della Chiesa, rispettoso dei limiti dell’umano conoscere, ossequiente alla modestia e umiltà cristiane, dovesse giudicare peccaminoso l’ardimento Ulisseo, che viola i segni d’Ercole, e farlo punire da una misteriosa e religiosa forza della natura, esecutrice della collera divina, è indubitabile”.

Più dubbioso è invece Avalle, il quale riconosce l’ambiguità dell’identità del “turbo” e fa notare che l’identità delle forze avverse “non è ben chiara, forse la natura sotto forma di ‘turbo’, forse Dio stesso (‘com’altrui piacque’; v. 141)” (“L’ultimo viaggio d’Ulisse”, in Modelli semiologici nella Commedia di Dante, Milano 1975, p. 42).

Ora, delle due l’una: se è stata la natura ad aver sprigionato dal suo seno la tempesta fatale, essa nulla in comune può avere con la rappresentazione antropomorfica di una natura gelosa e vendicativa, simile a una dea pagana, in quanto ci parebbe da escludere nel mondo dantesco l’idea di una natura siffatta, che colpisce autonomamente dalla “somma potestate”, e per giunta proprio in una circostanza così particolare. Oppure, se come vuole l’esegesi crociana, la morte d’Ulisse è dovuta   alla “collera divina” per il suo “peccaminoso ardimento” che ha scatenato la tempesta punitrice, allora il “castigo e la rovina” (Croce) a cui Ulisse espone non solo se stesso ma anche i sui compagni di viaggio con l’inabissamento della nave possono venire intesi come lo scotto pagato dall’eroe greco a compensazione dell’eccesso e della temerarietà del suo “folle volo”. Ma in questo caso è altrettanto vero che tale scotto viene da Ulisse definitivamente estinto nel momento preciso del suo “pagamento” (la morte), in quanto non trova riscontro nella pena inflittagli nell’al di là. Se il “folle volo” peccato è, si tratta d’un peccato che non viene condannato con una pena eterna, quindi un peccato non grave, un peccato estraneo, senza implicazioni considerevoli.

Una spiegazione di questo scarto (o contraddizione) che permea il canto XXVI ha tentato Seferis allorché scrive che l’Ulisse di Dante “appartiene sostanzialmente all’epoca e alla razza” del suo creatore (“Nota a Pound”, in Le parole e i marmi, cit., p. 21), ossia a un’epoca cruciale, di svolta, percorsa da segni di decadimento e di mutamento, e a una “razza” gigantesca, quella dell’uomo affermatosi attraverso le sue capacità e potenzialità terrene, che in Dante acquista “i tratti dell’uomo del Rinascimento” (Lotman). L’estraneità della figura di Ulisse alla tradizione medievale (fa notare giustamente la Corti che “l’unica eccezione” alla regola che vuole i prsonaggi dell’Inferno appartenere “all’Italia duecentesca” è per l’appunto Ulisse), fa di lui l’anticipatore dell’uomo futuro, che la fucina dantesca forgia alimentata dalla “sensibilità romanza sorta sulle macerie del mondo antico” (Avalle, “L’ultimo viaggio…”, cit., p. 63).

E’ lecito quindi dedurre, come fa Lotman, che la punizione destinata a Ulisse “colpisce il tessitore d’inganni e non l’audace viaggiatore assetato di conoscenza” (“Il viaggio d’Ulisse”, cit. p. 102). Da ciò ne consegue che, dopo l’Ulisse dantesco, il viaggio verso il proibito su cui gravava l’interdetto non è più punibile, e che la sua morte, per dire col titolo d’una poesia di Eliot, è una (semplice) “morte per acqua”, frutto d’una tempesta naturale, non già causata dall’ira divina né da una natura vendicativa al pari d’una dea pagana.

Del resto, il Dante rivoluzionario che la storia ci affida (e non il Dante “bigotto” voluto dal Croce), non poteva che consegnare Ulisse a Malebolge, e non certo condannare l’uomo nuovo per aver esortato i suoi compagni dicendo loro “fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza” (vv. 119-120). In questo consiste la grandezza di Dante poeta e uomo. Anche per Dante, insomma, la “canoscenza” non è mai blasfema, per questo una vicenda di tal rilevanza come quella dell’ultimo viaggio d’Ulisse meritava di venir narrata per esteso di contro al silenzio di Virgilio, perché è una concezione laica del viaggio che s’afferma. E se il viaggio verso l’ignoto si rivelerà mortale per l’ardimentoso viaggiatore, tale mortalità diverrà, dopo Dante, il moderno prezzo da pagare per l’”experientia rerum”, quella “di retro al sol, del mondo sanza gente” (vv. 116-7).

 

 


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