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Roberto Minardi - La città che c'entra

Da Ellisse

Roberto Minardi - La città che c'entra - Zona Editrice, 2015Roberto Minardi - La città che c'entra - Zona Editrice, 2015
Se ci si ferma a riflettere su quanta parte del nostro tempo dedichiamo (o perdiamo) - negli interstizi dell'azione di vivere, parlo di vivere attivamente la realtà a cui in qualche modo concorriamo - per osservare o semplicemente registrare attraverso i nostri sensi il circostante, ci accorgiamo che in maniera anche inopinata esso diventa parte della nostra identità: o perché ne siamo invasi e lo subiamo, o perché cerchiamo di interpretarlo, magari nel tentativo di trarne qualche fugace illuminazione, o di renderlo semplicemente sopportabile. In ogni caso è ciò che chiamiamo il "reale". Accettazione, osservazione, annotazione e interpretazione, è quel che prova a fare in questo suo ultimo libro Roberto Minardi, italiano all'estero (vive da anni a Londra), alle prese per lo più (ma non solo) con una realtà urbana, con una umanità incontrata in modo del tutto casuale nelle strade, nelle piazze e, naturalmente, sui mezzi di trasporto. Qualcosa di non dissimile, come materia poetica, da quello che accade per esempio a chi vive a Milano, un impoetico abbastanza universale (un non luogo, potremmo dire) che molta poesia contemporanea si è incaricata di mettere in poesia soprattutto nell'areale "settentrionale", ma non solo lì (v. ad es. Napoli QUI). Fin dal titolo, quindi, è la città che fa da ambiente centrale, anche quando di essa e della sua fauna espressamente non si parla, la città contenitore più che organismo sociale, la città palcoscenico di un teatro del fortuito o manifestazione di una realtà che si tende a considerare per accertata, quando invece, magari, nasconde qualcosa d'altro, qualcosa che vorrebbe suggerire a chi come l'autore "giudica" (ma in questa parola che Minardi usa non c'è nessuna condanna implicita). E' forse in questo senso che la città, soprattutto nella prima sezione "Nel pubblico trasporto", c'entra, è per così dire parte in causa. Vale la pena di notare, incidentalmente, che il titolo di questa sezione, con la sua anastrofe, l'inversione dell'ordine consueto, potrebbe avere un qualche significato, un "trasporto" che riguarda - anche - qualcosa di affettivo, di empatico, molto più di quanto riguardi un fatto meramente meccanico. La città c'entra e entra nel poeta attraverso uno sguardo aperto, non selettivo, in un certo senso impolitico, cioè scevro da evidenti connotazioni critiche e forse perfino da sottolineature di un disagio del vivere a cui invece molta poesia (urbana, postmoderna, o  tardonovecentesca, chiamatela come volete) a torto o a ragione ci ha abituati. In un certo senso per il poeta non è nemmeno una questione di essere individuo tra gli individui,  individuo/emblema, una voce in nome e per conto, non ha questa pretesa né arroganza. Giudica ma non critica, poiché - come scrive D. Castiglione in una sua nota, v. QUI - ha "un senso del limite che si ferma al di qua del tragico". Soprattutto in questa sezione di cui stiamo parlando, il suo è un atteggiamento di moderno flaneur, di fronte (con altri mezzi) ad un mondo più complesso e quindi più illeggibile di quello della Parigi baudelairiana (e certo con molto meno spleen), ma anche di quello di Pavese o di Frost. Ma sta di fatto che l'occhio è quello, uno sguardo un po' avido, teso a cogliere un "inutile dettaglio" (che poi alla fine forse inutile non è), un occhio dietro il quale c'è un io non tanto defilato quanto mimetico, sia perché perfettamente consono all'ambiente, sia perché sintonico (termine non casuale) con i fatti, la gente, i luoghi (e l'autore dice di voler "mostrare di essere quasi uno qualsiasi", e tralascio di sottolineare quel "quasi"). Certo che la capacità di cogliere ha un limite nell'esorbitanza della realtà stessa, che tende a tracimare nell'occhio. Ecco perciò che nella scrittura essa si sostanzia quasi sempre in un flusso, in una risacca di onde oggettuali, a volte incerte o contraddittorie ("come un contrasto che / la dice lunga o forse / non dice niente"), un flusso anche sintattico, ipotattico per la precisione, che trova la sua conclusione spesso solo nel punto finale, un flusso però nel quale le parole sguazzano bene, come pesci a loro agio, emergono metri classici, allitterazioni, assonanze, echi, una musichetta interna sic et naturaliter, ed anche qualche ingenuità ("Apro la porta e in cima alle scale, / perché in effetti ci sono le scale...", "dalla distanza, allora, si cerca di capire /  se è tè o se è caffè. Per cui ci vuole naso / per catturare questo inutile dettaglio", "Sul marciapiede, / il luccichio di una buccia d'arancia / offre secondi di incanto"), o forse ingenuità non è, ma un "delizioso pleonasmo", come afferma Castiglione. Va da sé che nel flusso c'è un rischio implicito, cioè quello di trovare o no una misura, come avviene a mio avviso in alcuni testi dell'ultima sezione, "Prima di diventare padre", anch'essi gestiti come un (per me troppo) lungo respiro, nei quali osservazioni oggettuali anche minime e pensieri, gesti del quotidiano e asserzioni, sembrano affastellarsi. C'è da dire però che certe scelte formali vanno considerate anche da un punto di vista concettuale, cioè come ipostasi della complessità, accertamento dell'impossibilità di com-prendere il tutto, come epifenomeni di una realtà in sostanza disaggregata, e in questo senso ha ragione Castiglione quando parla di "unico blocco tipografico, quasi a marcare l'unitarietà del momento" (corsivo mio - e blocco, aggiungo, è anche blocco difensivo proprio contro questa complessità disaggregata). E in effetti di momenti si tratta in questa poesia, di piccoli accadimenti, di oggetti, persone sconosciute e persone amate, animali, eventi naturali visti nella loro infinitesima manifestazione, raccolti in una narrazione descrittiva non epifanica, perché non c'è nessuna rivelazione, perché "è l'eleganza della luce che conta, lo stupore..." e "del tutto vano è anche sperare di abbracciare / la somma delle scene che fuggono, respirano, / mentre tentiamo di non perder l’equilibrio / e ci afferriamo a un palo". Un momento però per così dire policentrico, in cui gli scarti, le variazioni di direzione del discorso hanno una grande importanza e certo danno ai testi una loro capacità di fascinazione impressionistica. Resta per me importante, in una poesia del contemporaneo, che il poeta agisca su questo o su un altro tipo di realtà, la torca, la popoli delle sue idee e della sua visione, la intrida della sua presenza. Se il luogo in questa poesia ha un'importanza relativa nello sguardo diretto verso l'esterno, tanto che Londra o Berlino è lo stesso, ciò significa che certo  l'io ha poi la necessità di difendersi, di prendere le distanze da una patente equazione non luogo/non identità che lo riguarda non solo come individuo sociale ma anche come poeta. Questo è possibile solo mettendo  in campo, magari anche in forma traslata o metaforica, il soggetto, il sé, il coinvolgimento affettivo e sentimentale, la riflessione del proprio io cosciente e sul proprio essere in questo tempo, qualcosa che non sia solo di "simpatia" con chi, uomo comune tra i comuni, si incontra nella città, ambiente infine abitabile perché fatto di uguali o peggio di omologati.  E' da questo punto di vista, ad esempio, che trovo interessanti i testi in cui l'autore mette con delicatezza in scena la sua vita privata, domestica e affettiva, anch'essa tratteggiata a partire da elementi minimali ma icastici, rappresentativi, e spesso con un significativo passaggio dal "fuori" al "dentro", all'interno (notevole, in questo senso, "Prima di diventare padre", v. sotto). Offrendo così al lettore  - immaginandolo come il compagno di viaggio sul sedile accanto - qualcosa di sè, qualcosa in aggiunta a uno sguardo, pur meditato e attento, gettato sul caso in una metro in corsa, riguardo alla relazione più profonda tra gli uomini e l'ambiente in cui, anche poeticamente, vivono.  (g. cerrai)
da Nel pubblico trasporto
La traversata
E nel parco, col gelo, c’è un’alba autunnale:
uccelli indaffarati, scoiattoli da soli,
gente che porta i cani a passeggiare;
si cerca il tronco, il fosso o il ramo che ci vuole.
Sono gli stessi visi che cambiano ogni tanto;
nessuno si saluta, sono rigidi gli occhi.
Le foglie colorate producono un incanto;
sciolgono il groppo che era un blocco –
o si trattava di sonno...? Ripenso a una canzone
italiana, d’autore; ne storpio le parole,
ne rido come fossi in compagnia. Poi:
ero, mi dico, sono, non sono, non puoi...
Non si vede il punto, si fa perché si fa,
si esce dal cancelletto che stride, arrugginito,
lungo la strada, fino a destinazione... Ma
tempo dopo, altro ambiente, labbro storto, stupito:
ma allora dimmi, dice, come fai lì
se sono così freddi? Io non potrei... E smette. Pare
si renda conto che è una domanda così,
fatta tanto per fare. Uno se deve camminare,
cammina, anche se può sembrare strano,
è l’eleganza della luce che conta, lo stupore
che provocano i fasci quando sfumano;
per luce intendo anche i salti che fa il cuore.
La sua statura bassa
Stringe le labbra e non mi guarda,
cerca un posto a sedere,
barcolla leggermente e tiene salda
in mano la cassetta degli attrezzi.
Saranno le basette bianche e incolte,
il viso esposto a ciò che c’è fuori,
palesemente, a fare di quest’uomo
una figura da me non lontana
che con le dita preme tira e lascia
andare un filo teso nella cassa
che sta all’altezza dello sterno, immagino...
Dov’è che spargerà, senza pensarci,
in quale casa, l’odore di ferro
che fanno certamente i suoi capelli?
Il cane assisterà – se un cane c’è –
al suo pasto serale, al suo bicchiere,
mentre lui mastica e non si concentra
davanti ad un televisore acceso...
Che lato che finestra si godrà
le scarse gocce di pioggia che formano
fiumi magrissimi sui doppi infissi?
Chissà se c’è anche lì – come c’è qui –
la litania del compressore, lieve,
del frigorifero, nel sottofondo...

Avrà il coraggio, infine, che non ho,
di ricoprire la giusta distanza
e non restare confinato in sala,
con l’unica ambizione di cercare
un rapporto alla pari con le fughe
del pavimento?

Prima dell’annuncio


Un occhio si smarrisce facilmente
e l’altro è ossessionato dalla terra,
così all’impiedi, mentre il corpo oscilla,
tra una fermata e quella che verrà,
viene l’urgenza di far risaltare
il gesto lento del vecchio cinese
che con un panno pulisce gli occhiali.
Tutt’a un tratto si ha voglia di andare
sopra le righe e invitare i presenti
a un pianto doveroso...
Ma anche la commozione se ne va
ed è concesso soltanto a chi canta
di liberarsi ad alta voce. A me
non resta che impugnare il cellulare,
premere i tasti e fingere di usarlo,
prima di avviarmi all’uscita e mostrare
di essere quasi uno qualsiasi.

Fiori
Non si tratta di incontri setosi
sotto stereotipi stellari,
ma di momenti maldestri
quando tutto si torce
e nasce una spirale;
le palpebre cedono, sotto il cappotto
non si capisce niente
e uno più uno fa uno.
Potrebbe darsi il caso, infatti,
che tutti i ricordi più alti
si ricongiungano a una lingua morbida,
a unghie dipinte di rosso bordeaux
e a quattro piedi piantati nel fango
autunnale, in un campo deserto,
sotto lo sguardo assente
dei pali della luce.
da E vissero
Nell’ordine del blu ma anche dell’ambra
Non tutto quadra, il cosmo non riposa.
La brezza fa gonfiare un po’ la tenda,
scuote le foglioline della pianta
ma giustamente non mi riconosce.
Una boccata termina, consuma;
con una dose abbondante di arte
spengo il filtrino e richiudo le imposte.
La cima della notte è mia moglie;
per lei ho le braccia, il fiato e le mie gambe
si intrecciano alle sue con molta cura.
Ed è con questo genere di musica
che si alimentano i nostri motivi.
Il palloncino manca
Basta spiarti mentre tu consideri
come mi sta il maglione e sistemi,
con fermezza, il collo della camicia
o accogliere la solita flessione
delle due labbra dischiuse ma poco,
per imparare a tessere il vigore
di questo stare al mondo. E non c’è peso,
nel senso che non grava che un profumo,
se noi restiamo ritti ed abbracciati,
un poco sollevati i tuoi talloni,
come in quel grande dipinto naïf
che c’era al mercatino dell’usato.
Insomma tutto cambia pelle quando
noi non c’entriamo niente con il tempo.
da Prima di diventare padre
L’uomo nobilita il lavoro
“Good morning, how are you?”

E io che ho fatto ieri non posso raccontarvi.
Però sorrido, sì, mantengo il buon aspetto e mi riscopro
affezionato alla gente, a certe virtuosaggini.
Se il superiore ride, la mia collega ride...
Il direttore ha detto che siamo tutti uguali;
voglio capire di chi parla mentre
lontano da qui, il mare spinge verso riva,
il fiume sfocia proprio dentro il mare
e io, bacucco come gli altri,
rispetto i mocassini che indosso.
Prima di diventare padre
Voglio stendere un velo mediamente pietoso
sui nervi che testimoniano
in un pianeta fuori dalla portata
viaggiano le radici
vanno a cercare nutrimento
l’intera storia nei cerchi
voglio morire il più tardi possibile
per essere in grado di vivere
prima o poi
si chiederanno che vorrò dire e lo faranno
se non avranno intuito
perfino quello che non c’era da comprendere
è ficcante il potere di cogliere in flagrante
il gioco di chi tira i fili
la fede appartiene a chi la fabbrica
la femmina della giraffa urina in bocca al maschio
che dal gusto del liquido
capirà se lei è in calore
è parso anche a voi di sentire un richiamo
la voglia lacerante
di vivere fino a morire?
to be looking like nothing
to be looking nothing like
l’assenza di volti gentili è spossante
signore con tintura all’henné indossa
giubbotto in finta pelle
il calcagno delle scarpe è liso
sorride mentre scende dall’autobus
ma non si sa perché né a chi e molti altri curvi individui
solo lavoro è la vita
disse il poeta con piglio banale
dopo abbondanti sorsi di vino
il sonno è disturbato
la pancia già ingrassa
sono tutti bravi così, ci vuole poco
pensa qualcuno ma non mette in atto
come progetto su due piedi
eviterei le fiumane di gente
le dita che al vento si distraggono
il discorso non piega
è sicuro
sicure sono le stesse mani
l’unico modo di andare avanti è deciso
fuori di me però non solo
la storia viene impastata
da chi è conciato meno bene
con varie espulsioni, emulsioni
la musica non sappiamo da dove arriva
sui pensieri la nebbia si affaccia
le industrie belliche non falliranno
avercela col male non è facile
stupenda creatura a me ignota
il male non tange il più delle volte
credo nel verde e nel marrone
della campagna
nell’oleosa proprietà del mare
vi voglio bene e non vi voglio
penso alla schiuma
al pianoforte che non so suonare
chiunque tu sia
sono dalla tua parte ma fino a un certo punto
nella stupenda sorpresa olfattiva
di quando torno a essere umano
un movimento d’aria sbalordito
ti dico che amo ed è così
difficile accettare dei miracoli.

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