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Rocciacavata (1994) - Sesta parte

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Huys, la Battaglia navale nello Stretto di Messina
Ora, l’anello storico che mi mancava consisteva nel capire perché, ad un certo punto, il principe si era ritirato dalla congiura. Forse la baronessa voleva suggerirmi che tra la disgrazia e questa decisione c’era un nesso? In realtà, a me risultava che la decisione di cambiar rotta alla sua politica era stata presa prima della disgrazia e non dopo. Per un attimo avevo persino pensato che Clara fosse entrata in possesso di documenti che non aveva donati alla biblioteca. Il padre era stato un notaio, la sua era una famiglia antica, ed era probabile che il padre o qualcun’altro della famiglia per vie traverse fosse venuto in possesso di documenti del principe. Forse Clara leggeva tutta la vicenda alla luce di quelle carte, che si guardava bene dal consegnarmi per il piacere di giocare con me come il gatto col topo, o magari per il gusto di dimostrarmi la sua superiorità intellettuale, la sua perspicacia. Non sapevo in effetti proprio cosa pensare! Comunque, questa mia ipotesi non era da scartare, e se si fosse dimostrata vera dovevo agire nei suoi confronti in modo meno precipitoso e più ponderato. È difficile comprendere l’ansia febbricitante che prende un ricercatore quando si trova davanti a qualcosa che dopo tanti e tanti sforzi può finalmente chiarirgli l’assillo, il dubbio che gli ha arrovellato la mente per anni e anni. Io ero da tempo alle prese con questa ricerca storica. Ero riuscito a ricostruire minutamente tutto i debiti contratti dal principe Saverio Antonio, i rapporti intercorsi tra la sua famiglia e il regno di Spagna, tutti i passaggi che aveva compiuti nella sua esistenza, ma quando ero passato a trattare le vicende del principe Gironimo mi ero accorto che molte cose, anche quando sembravano chiare, mi sfuggivano. Eppure, Gironimo aveva un carattere metodico, era ossessionato dall’ordine e dalla precisione, al contrario del padre che era un gran pasticcione. Tutta la sua esistenza era ben regolata, ogni atto della sua vita risultava documentato: solo sulle dinamica della congiura aveva saputo stendere, ma per ragioni comprensibili, una cortina impenetrabile. Ma, pensavo, era proprio questa trasparenza calcolata che offuscava la sua vita, il suo nitore a creare ombre. Riflettevo su tutta la vicenda: avevo l’impressione che la mia interpretazioni si snodasse in modo quasi perfetto, era come inseguire un percorso già tracciato.

Tutti i tasselli, tranne uno, si incastravano nel posto giusto: il tradimento si giustificava con l’atteggiamento del re, il consolidamento del feudo con la vendita del ducato del genero, il suo possesso con la tragedia del 16 marzo 1596... marzo 1596... 1596.... Ripetevo a me stesso la data. C’era qualcosa in quella data che mi magnetizzava, qualcosa che fino a quel momento non avevo considerato. La data! Ripetevo a me stesso: nelle carte di Don Vincenzo c’era un richiamo a quella data! Ricordavo che una volta era spuntata durante la lettura, ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a ricordare in quale punto l’avessi letta. Purtroppo, avevo lasciato i documenti nella mia stanza: avevo l’intenzione di restituirli la sera stessa. Mi s’era accesa in corpo una frenesia incontenibile. Forse, pensavo, la cosa non aveva importanza, ma il fatto che quella data ricorresse in uno di quei documenti poteva essere una traccia significativa, il luogo dove la baronessa voleva indirizzarmi. Ritornato in fretta nella mia camera, avevo ripreso in mano quel fascicoletto e individuato il punto dove avevo letto quella data: In Dei nomine Amen, etc., Regnante etc. Die vero undecimo mensis Aprilis 1596 etc. Era la supplica del principe inviata al Procuratore Reverendissimo in occasione dei funerali del medico Domenico Savio. Dunque, tra la tragedia e la morte del medico intercorreva soltanto un mese di distanza: quale connessione poteva mai esserci tra i due fatti? Si trattava di una semplice coincidenza? Come era morto questo medico? I documenti storici non riportano particolari così insignificanti! La morte di un medico non era certo un avvenimento eccezionale da meritare il rigo di una cronaca. Il tempo, purtroppo, cancella del passato ogni traccia insignificante, e soltanto piccole scaglie si salvano rimanendo impigliate in cose più importanti e più degne di menzione. Poi solo una serie banale di circostanze riesce a volte a riportarle a galla. Ecco, mi dicevo, come senza la supplica del principe, la sua mania della precisione, di questo medico di corte non sarebbe rimasto nulla, nemmeno il nome. E adesso a me toccava ragionare su questo nulla.

Avevo deciso di non pensare più ai toni cospirativi di Clara o ai cenacoli del prete, e di dedicare maggiore attenzione al mio lavoro. In effetti, negli ultimi giorni m’ero lasciato un po’ distrarre, e il lavoro procedeva piuttosto a rilento. Volevo evitare che l’uniformità piacevole di quella vita cominciasse a stordirmi, e la mitezza dolce e profumata di quei posti a sedurmi. I documenti da esaminare erano ancora tanti e non potevo concedermi il lusso di dilazionare la fine. Un giorno che stavo in biblioteca mi era capitato tra le mani un documento interessante: si trattava di un inventario dettagliato di tutto il patrimonio del duca Alfonso. Era stato redatto un anno prima della tragedia. Avevo alzato lo sguardo: fuori, oltre il lucernario, spiccava un bel cielo blu; un raggio di sole e l’alito dolce della primavera penetravano da una finestra aperta e si mescevano con l’odore della carta antica. Riflettevo su quel documento: mi sembrava utile per ricostruire la mentalità e la cultura materiale delle classi aristocratiche agli inizi dell’età moderna. L’inventario non riportava il nome di chi l’avesse fatto redigere. Nel caso dell’inventario del castello del duca Alfonso mi trovavo di fronte proprio ad una dimora baronale e ciò mi permetteva di cogliere gli «interni» del castello in uno stato di autenticità che ne accresceva di molto il valore documentario. Conteneva la descrizione minuziosa di ciascun ambiente del castello e riportava l’elenco completo degli arredi: la sala del castello, la prima camera che corrispondeva verso la marina, la seconda camera che corrispondeva verso la strada che va a la piazza, la terza camera che stava posta sopra la porta del detto castello con la finestra che esce fora lo cortiglio, il solaro de suso sopra detta camera, la camera de la guarda roba seu dispensa, l’altra camera verso la montagna, il fondo de la torre vicino lo ponte, il cortiglio del castello de celso bianco, l’appartamento et il fundo dove se trovano gli ogli, la stalla, ecc. ecc. La camera con la finestra che esce fora lo cortiglio raccoglieva materiale assai vario: soprattutto armi e pezzi di armature, qualche sella, un mortaio. Vi spiccava una cascia senza coperchio, in cui si trovavano quindici pezzi di libri. Il primo in elenco era la Descrittione di tutta Italia et isole pertinenti ad essa, ossia la nota opera di Leandro Alberti. Alcuni libri erano annotati come anonimi. C’erano dei trattati sull’equitazione, e non mancavano Le prediche in tre libri di Fra’ Cornelio Musso, che all’epoca avevano incontrato una discreta fortuna.

La piccola biblioteca così formata mostrava un sorprendente anche se lieve squilibrio fra una componente devozionale, per la verità non peregrina, ed una componente classico-umanistica. Nel complesso mi sembrava di poter mettere in evidenza come nella vita provinciale dell’aristocrazia la lettura occupasse un posto, magari ristretto, ma stabilmente ricorrente. I libri dovevano per la maggior parte essere stati acquistati direttamente dal duca e non ereditati. Le date di pubblicazione dell’opera del Musso e dell’Alberti erano di poco anteriori a quella dell’inventario: indizio anche della tempestività di informazione con la quale il duca seguiva le vicende culturali del tempo. Mi chiedevo come avesse appreso l’arte dell’acqueforti. Pensavo al carattere complesso di questo sfortunato duca e come fosse diverso, prima della malattia, da quello del principe Gironimo, collerico, violento, durissimo, sempre più irritabile e aspro col volger degli anni. La fine miserevole di Alfonso mi sembrava simboleggiare quel temperamento: trascinato da una forza quasi suprema s’era lasciato abbattere dalle avversità senza difendersi muovendo stoicamente verso il patibolo. Quella punizione sarà sembrata giusta per la sua colpa. Non avrebbe certo saputo sopravvivere al rimorso. Una volta m’era capitato di vedere un suo ritratto: la figura del duca sembrava lontana, ermetica, astratta, chiusa nella sua estrema eleganza, un volto di onice, e intorno circondata da strani simboli, come le colonne lunghe che non reggono nulla. Tutto sembrava trasportato in una dimensione astrale, quasi metafisica. Anche le masse sembravano dilatate, espanse e senza peso, e i colori vivaci brillavano di una luce mistica. Aveva gli occhi buoni e tristi il duca, e un profilo ascetico. Il pittore era riuscito a dare a quella espressione un senso di distacco, un senso di preveggenza di quanto doveva accadere. O almeno, questa era stata la mia impressione.

Come spesso l’esperienza s’incarica di dimostrarci nella vita di ogni individuo a dominare è il caso. La congegnata catena di cause ed effetti era solo una combinazione fortuita di circostanze che soltanto il nostro sguardo retrospettivo ci fa apparire come tale. Sono tante, diceva Clara, le variabili ch’entrano in gioco nell’accadimento di un fatto che a volerle prevedere tutte è solo un’illusione. Era passata a considerare il mio lavoro di storico, e mi riservava le identiche critiche: anche noi storici siamo soliti filtrare le conoscenze attraverso schemi che ci siamo formati nella mente e cerchiamo poi ogni pretesto per adattarvi la realtà. Mentre ascoltava Clara parlare, il mio ingegno sembrava incatenarsi al suo spirito, e i sensi godevano dello svago stordente di quella quiete e delle parole che si diffondevano nella sera. Ma dovevo difendermi dalle sue osservazioni. Sapevo che ogni spiegazione casuale rappresenta soltanto una visione frammentaria e parziale della realtà indagata, ed ero anche consapevole del fatto che la realtà sia costituita da un’infinità di relazioni, ma la ricognizione della realtà non può procedere all’infinito. Noi storici, dicevo, ci dobbiamo accontentare di cogliere certi aspetti del divenire, di studiare precisi fenomeni e di trascurarne altri. Sapevo insomma, e lo ribadivo con forza, che in ogni ricostruzione storica noi operiamo delle selezioni sia dei punti di vista sia delle cause attraverso le quali cerchiamo di studiare e spiegare i fenomeni, ma ciò non voleva dire forzare la realtà dei fatti per adattarli ai nostri schemi. Mi accorgevo, mentre parlavo, che lo sguardo sognante della baronessa era altrove, inseguiva altri pensieri. Ad un tratto mi aveva domandato come procedevano le ricerche sul principe. A dire la verità, quella sera preferivo evitare l’argomento per toglierle dalla testa l’idea di voler guidare la mia ricostruzione storica. Mi limitavo a riferire qualche cenno vago sui documenti che avevo esaminato, aggiungendo che, purtroppo, non ero ancora riuscito a trovare quel che più mi premeva, cioè quello che poteva spiegarmi la condotta del principe nei confronti delle grandi potenze. Insistevo su questo aspetto perché lei capisse che era questa la traccia che a me interessava seguire. Per adesso, dicevo, dovevo accontentarmi di aver scoperto l’inventario dei beni del duca Alfonso. Mi aveva chiesto subito quale data portava quel documento e chi lo aveva redatto. Alla prima domanda rispondevo ch’era datato un anno prima della morte del duca, per il resto si trattava di un documento anonimo. Io avevo cominciato a diffondermi sull’utilità che quell’inventario costituiva per il mio lavoro di ricerca, in quanto mi offriva l’occasione di cogliere il gusto e la mentalità dell’epoca, ma avevo capito che questo lato della mia ricerca a Clara non interessava molto. Mi aveva interrotto per chiedermi se avessi riflettuto su quella data: che bisogno aveva il duca di far redigere l’inventario delle sue proprietà se non aveva nessuna intenzione di venderle? Mentre parlava, l’espressione di Clara era diventata seria e fervida. Io non ci trovavo nulla di strano. È vero che l’inventario di solito si faceva quando bisognava mettere all’asta il proprio feudo, ma poteva essere che in quel caso il duca volesse far stimare le sue proprietà in vista di un matrimonio. Nella mia mente cominciava a balenare l’idea che Clara volesse suggerirmi l’ipotesi che il principe aveva organizzato una congiura per impossessarsi del feudo del duca. Glielo avevo detto senza mezzi termini, e lei s’era adombrata dicendomi che non aveva intenzione di suggerirmi un bel niente, ma voleva soltanto consigliarmi di vedere i fatti da un’altra prospettiva. Ad ogni modo, ribattevo, per vedere le cose diversamente occorrevano dei documenti, altrimenti si sarebbe dato corso a tutte le congetture. Ed io fino a quel momento non avevo trovato nessuna prova che potesse convincermi a vedere i fatti d’altra angolazione. «Ma lei, professore, non ha finito di esaminare tutto il blocco di documenti di questa mattina, altrimenti si sarebbe accorto che in mezzo ce n’era uno particolarmente interessante». La cosa risultava vera. Insieme all’inventario c’erano allegati degli atti processuali, che ad una prima occhiata non mi erano apparsi importanti. Difatti mi era riservato di esaminarli in un secondo tempo. Quelle sue parole, invece, oltre che a gettarmi in un febbrile stato di eccitazione, mi facevano capire che Clara avesse studiato l’archivio storico del principe molto prima del mio arrivo. Si era di nuovo affacciato il sospetto che lei avesse sottratto qualche documento importante dall’archivio. Domandavo con voce titubante a quale documento alludesse. Ma in cambio mi dava una risposta elusiva: «Ci vogliono dei documenti per vedere i fatti da un’altra prospettiva. Ma se questi sfuggono alla nostra vista o sono scomparsi, come si comporta in questi casi lo storico?».


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