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Rosalba, il teatro negli ospedali

Creato il 25 febbraio 2013 da Tipitosti @cinziaficco1

  “Ho sicuramente avuto il privilegio di vedere e conoscere tante persone, tante storie, che magari un bambino che vive protetto nel suo ambiente domestico non conosce in così larga misura ed in modo così concentrato. Sicuramente è stata un’esperienza che ha nutrito i miei strumenti percettivi di potenziale scrittrice. Tutto quel mondo, quelle storie, quei volti, sono stati un patrimonio umano di valore inestimabile”.

A parlare è Rosalba Panzieri, nata a Rieti nel ’78, scrittrice, che ha avuto una grande idea: portare la letteratura e il teatro nelle corsie degli ospedali. Il progetto, unico in Italia, è partito l’anno scorso. E’ stata lei ad inventare una cartella clinica molto particolare. Ma facciamoci raccontare tutto da Rosalba, che in un nosocomio è rimasta per mesi, quando era piccola.

Rosalba, il teatro negli ospedaliDa dove nasce l’idea di trasformare gli ospedali in palcoscenici e i malati in attori?

Il bisogno, perché di questo si è trattato in realtà, è maturato lentamente. Credo si sia trattato dell’incarnazione di un bisogno di tanti. Mi riferisco a tutte le persone, “i pazienti”, che hanno abitato per secoli le corsie degli ospedali, senza che restasse traccia della loro storia. Il bisogno di essere riconosciuti in quanto esseri umani è sempre stato mutato dalle arti, dalla letteratura in particolare, attraverso la narrazione biografica o la trasfigurazione poetica, che conduce dall’uno al tutto. Il teatro, quale incarnazione del verso, permette di vivere nel qui ed ora l’esperienza letteraria. Con queste premesse, ho iniziato a scrivere drammaturgie che raccontassero l’uomo di fronte alla malattia. E’ stato allora che ho compreso quanto la scrittura fosse utile a ridare dignità e concretezza a persone, ridotte ad ombre, da un sistema culturale colpevole di sottrarre proprio alla cultura la sua universalità.

Cosa vuole dire?

Il diritto all’arte e, al sé, non può essere selettivo e fare distinzioni di luogo, tempo, stato sociale.

Forse a spingerla in questo progetto sarà stata la sua lunga degenza in ospedale?

Ma, di questo non sono sicura, ho sempre nutrito più interesse per le storie degli altri che non per la mia. Mi tengo lontana da tentazioni biografiche per ora. Direi che l’esperienza di bambina in ospedale ha lasciato più che altro una familiarità, un’assonanza tra quello che sentivano gli altri in quelle stanze fredde e quello che percepivo io. Ho sicuramente avuto il privilegio di vedere e conoscere tante persone, tante storie, che magari un bambino che vive protetto nel suo ambiente domestico non conosce in così larga misura ed in modo così concentrato. Sicuramente è stata un’esperienza che ha affinato la mia capacità di sentire e scrivere. Tutto quel mondo, quelle storie, quei volti, sono stati un patrimonio umano di grande valore.

 Cosa ricorda di quel periodo? Cosa le mancava di più?

Certamente non la dimensione umana. Ho ricordi di infermieri e medici meravigliosi, in particolare Carlo Marcelletti e Giuseppe De Simone. Il gioco neppure, perché è stato un mondo pieno di colori quello che cercavano di realizzare per noi bambini. L’aria, il profumo dell’erba, le farfalle. Questo non esisteva più. Non esisteva più la possibilità di essere libera.

Quanto tempo ci è rimasta?

Alcuni mesi.

Torniamo al progetto, unico in Italia, partito ad aprile dell’anno scorso. Esiste qualcosa di simile all’estero?

No, in questa accezione precisa non esiste neppure in altri Paesi, che sono monitorati dal Professor Santini, Presidente della società mondiale di aritmologia.

A cosa serve portare la letteratura e il teatro in ospedale?

A conoscersi, riconoscersi e riconoscere. Il rapporto con sé stessi è sempre speculare del rapporto che instauriamo con gli altri. Un’ apertura maggiore verso l’altro, verso il suo universo interiore e le sue ragioni alimenta una attenzione nuova verso le nostre voci interne, spesso costrette dentro paure, pregiudizi, sovrastrutture di difesa. In un momento di fragilità estrema come quello della malattia, riconoscere la propria sostanza interiore è fondamentale, altrimenti si finisce per aderire a quella visione di malato che la cultura dominante ha imposto.

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Ha cominciato con gli ospedali Bambin Gesù e San Filippo Neri di Roma, è così?

Sì. Ho cominciato con il San Filippo Neri. Al Bambin Gesù mi ero rivolta per il
secondo appuntamento e lì il cardiochirurgo Antonio Amodeo, chiedendomi di
fare un controllo, ha scoperto che avevo bisogno di un intervento al cuore. Mi ha operata con un altro cardiochirurgo, Adriano Carotti, salvandomi la vita. Credo che il mio sia stato un vero e proprio tributo di carne ad un progetto che chiedeva di essere sentito in ogni aspetto. Così oggi riesco a sostenere l’incontro quotidiano con chi è malato.

Il progetto è itinerante?

Il progetto in realtà si sviluppa in due direzioni. Da una parte, abbiamo il laboratorio di ricerca stabile “letteratura e teatro in corsia”, che ha sede al San Filippo Neri, realizzato in collaborazione con Massimo Santini, Direttore del dipartimento cardiovascolare e Vincenzo Loiaconi, Direttore della chirurgia delle aritmie, con il sostegno del Direttore Generale, Lorenzo Sommella. Dall’altra parte, stiamo programmando incontri con altri ospedali d’Italia.

I prossimi appuntamenti?

Per ora sono top secret, ma ne parleremo tra un paio di mesi attraverso una conferenza stampa.

Quali autori porta negli ospedali?

Propongo una letteratura che faciliti l’incontro tra diversi linguaggi di medici e pazienti, tra le parole della scienza e quelle dei sentimenti per realizzare una nuova sintassi.

Quale l’autore che secondo lei è in grado di far guarire l’anima e di conseguenza il corpo?

Ogni persona che riesca a scrivere di sé. Il grande Carlo Marcelletti sosteneva che ognuno è il miglior medico di sé stesso.

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Quali sono stati gli effetti della vostra terapia?

Il risultato più importante, ottenuto fino ad ora attraverso la ricerca di laboratorio, è stata la nascita di una nuova procedura, unica nel panorama sanitario internazionale: la “cartella clinica umana”. Attraverso il “modello di narrazione alfa”, che ho realizzato con la direzione scientifica del Professor Santini, il paziente ha finalmente uno strumento che gli consente di raccontare la sua storia e inserirla in una cartella clinica. In questo modo il suo vissuto assume la stessa dignità terapeutica e la stessa valenza di qualsiasi altro dato di anamnesi. La procedura cambia la letteratura medica, che deve rimodulare visioni e conoscenze a partire dall’uomo prima che dalla patologia.

In tanti stanno meglio, sono guariti?

La guarigione è sempre sinergica ed i confini dell’esito farmacologico e di quello assistenziale sono destinati a confluire l’uno nell’altro. Molti pazienti trovano la spinta giusta a guarire. Platone sosteneva che non si può curare il corpo senza curare l’anima. Come dicevo si ha bisogno gli uni degli altri.

Quanto è stato faticoso realizzare il suo progetto?

E’ stato faticosissimo e bellissimo. Spesso ho cercato di difendere questa “visione” – perché è da questo che sono partita, da un pensiero che educava il mio punto di vista a rimanere centrato sul potere della scrittura, sul suo potenziale di intuizione, scienza e verità. Oltrechè da me stessa e dalle mie stanchezze occasionali, cercando di non perdere mai quella tensione, che ci permette di tradurre i sogni in realtà.

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 I medici hanno accolto con entusiasmo il vostro progetto?

Alcuni sì, altri hanno aderito dopo aver visto gli esiti positivi.

E i pazienti?

I pazienti sono straordinari. Ho avuto più di quanto mi sarei mai aspettata. Ero pronta ad affrontare delle resistenze da parte delle persone, che in genere non sono abituate a mettersi a nudo attraverso la scrittura. Invece, è stato sorprendente trovare un’adesione piena, anche da parte di anziani poco istruiti.

Mi spiega esattamente cosa succede in corsia?

Il lavoro si svolge su più fronti. Si raccolgono le testimonianze ed i racconti orali delle persone che si trovano a vivere l’esperienza della degenza ospedaliera. Si elaborano delle drammaturgie dove la parola diventa strumento di conoscenza della malattia e del percorso terapeutico scelto. Si consegna il “modello narrativo alfa” per la cartella clinica al paziente, che così può trascrivere la sua storia personale, la percezione individuale che ha della patologia. C’è posto anche per i suoi sogni. A quel punto si studiano i risultati del laboratorio per costruire nuovi vocabolari medici, utili a migliorare la comunicazione medico-paziente. Si fanno periodiche rappresentazioni teatrali in corsia, tra i letti delle persone ricoverate, perché il potere catartico del teatro possa sostenere la terapia intrapresa e, quindi, il processo di guarigione.

Pazienti e medici si incontrano su un palcoscenico ideale, dunque?

Come spiego spesso, lo spazio scenico coincide con il contesto ospedaliero, i suoni con l’operatività di corsia. C’è quasi un iper- realismo che consente di liberare le varie soggettività dai ruoli consueti. Medico e paziente tornano, attraverso l’attore che rinasce in un corpo multiplo, a raccontare le loro dimensioni umane, private, intime, accantonando il pudore della fragilità. Si dà luogo ad una conoscenza che è guarigione. Sono sempre più convinta che la scienza non possa mantenere promesse al di sopra delle sue possibilità. Due persone che si alleano, sì.

Quanto è costato il suo progetto?

Moltissimo in termini umani. Mi sono sacrificata tanto per un anno e mezzo. Per i primi tempi ho lavorato gratis. Mi è stato, però, restituito molto più di quel che ho investito. Tanti i movimenti, le voci, i cambiamenti, che mi aiutano oggi a sopportare le rinunce necessarie ad andare avanti.

 

Ci sono stati momenti in cui tutto le è sembrato particolarmente difficile?

Certamente, ce ne sono sempre, vivendo. Beh, una fase è stata molto difficile: quando ho scoperto che da scrittrice emergente, premiata, impegnata in un tour teatrale per i malati, la malata improvvisamente e del tutto inaspettatamente ero diventata io.

E come ha fatto a resistere?

Continuando a scrivere e rappresentare, nutrendo i miei giorni della bellezza delle attività che amavo. Fidandomi dello straordinario potere della vita.

Chi le è stato sempre vicino?

Molte persone, i miei familiari, i miei amici. In particolare Carlo e Pino, e tutti gli animali che ho amato.

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C’è un paziente adulto o bambino che non scorderà mai?

Sì, Stefano. Perché eravamo piccoli ed ignari dei diversi percorsi che si possono intraprendere dopo esserci conosciuti e aver condiviso il sonno inquieto senza i genitori accanto, ma anche le parole magiche delle favole che qualcuno, tra i nostri letti, leggeva per entrambi. Di lui mi resta solo la polvere delle favole. Non ricordo il suo volto, ma solo il suo sorriso.

Non ricordo neanche la sua mano, ma è ferma nella mia mente la solitudine dalla quale ci siamo difesi, facendoci compagnia. Non ho un suo indirizzo per andarlo a trovare, perché io ce l’ho fatta, lui no. Ci incontreremo in un altro tempo.

Progetti per il futuro?
Un viaggio in Africa, per incontrare l’uomo nella sua assolutezza di essere vivente.

                                                                                                                           Cinzia Ficco


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