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RotterdamFilmFestival Daily: i film che ho visto venerdì 23 gennaio 2015

Creato il 24 gennaio 2015 da Luigilocatelli

1) Undulant Fever, di Ando Hiroshi. Giappone. Sezione Spectrum. Voto 7 meno

Photo Credit: IFFR

Photo Credit: IFFR

Da un libro che fu di culto tra i ragazzi giapponesi anni Settanta, diciamo un Porci con le ali con il sesso ma senza la politica. Una ragazza cade in amore per uno studente un po’ più grande, ma lui da lei vuole solo sesso. Sembra una di quelle cose sciampistiche da lamentosa tv del pomeriggio, tutto un “io lo amo, ma lui vuole solo il mio corpo, vuole solo quella cosa là”. Sembra, ma il film man mano cambia pelle e umori e diventa una crudele lezione su cosa sia l’amore, o il non amore. Sull’amore come gioco di potere. La ragazza accetterà di non essere amata, si farà anche brutalizzare da lui, pur di non perderlo. Si giocherà per lui amicizie, e l’alleanza della madre. Una piccola discesa negli abissi, nella perdizione. Un amour fou su scala ridottissima, un Senso viscontiano calato nel banale quotidiano. Un piccolissimo, ma piccolo davvero, Impero dei sensi, senza smanie metaforiche o allegoriche o messaggistiche. Solo due ragazzi, e un amore qualunque cattivo fino alla ferocia. Un film che parte dimesso, ma che man mano si ispessisce e complssifica, anche grazie a una messinscena come distaccata, congelata, che sembra l’estensione su schermo della frigidità emotiva del protagonista, e che ricorda un film-capolavoro giapponese lanciato alla Berlinale 2014 e approdato anche al Milano Film Fesrivcal, Forma. Anche se qui non siamo alle stesse altezze.
2) Impressions of a Drowned Man, di Kyros Papavassiliou. Cipro-Grecia. In concorso per l’Hivos Tiger Award. Voto 7
In questo festival di film spesso impervi e ostici, che fan di tutto per non farsi voler bene, in un concorso che finora ha alineato cose spiazzanti e irrisolte, forse – e sottolineo forse – questo film in lingua greca è la cosa migliore. Arty, certo. Di quei film che usano la poesia e le figure dei poeti per stabilire il proprio status culturale e marcare la differenza rispetto al cinema medio. Però. Però Impressioni di un annegato ha una pulizia nel percorso drammaturgico, una linearità pur nella voluta complessità, un’eleganza che si nutre di sobrietà e tocchi lievi che lo salva dalla detestabile artisticità, dalla pretenziosità. Con dentro parecchie cose asaai alte e alate come l’ossessione del doppelgänger, i labirinti e gli eterni ritorni tempoirali alla Resnais-Robbe Grillet, le identità fluttuanti. Con incursioni nel fantastico e suggestioni orrorifiche. Perché il protagonista Kostas è un revenant. Si aggira, smemorato, in paesaggi rurali e urbani, senza sapere né da dove viene né dove sta andando. Sarà una donna che si dice incinta di lui, a rivelarlo a se stesso: è un poeta di nome Kostas Karyotakis, suicidatosi nel 1928 per annegamento, e da allora forzato dal destino a tornare in vita ogni anno l’anniversario della sua morte, senza però che possa ricordarsi del suo passato. Detta così, sembra una faccenda lamiccatissima. Il film ha il merito di renderla plausibile e molto, molto umana. Con una compagnia teatrale che interpreta i poeti-scrittori suicidi, ed ecco allora Majakoksky, Sylvia Plath, Paul Celan, Cesare Pavese. Al’interno di una stazione abbandonata, i cui binari son coperti d’erba, inghiottiti dalla natura. Binari che non portano da nessuna parte. Come quelli della scena di chiusura del bertolucciano Strategia del ragno.
3) Black Stone, di Roh Gyeong-Tae. Sud Corea. Sezione Spectrum. Voto 5 e mezzo
Son chiamati bastardi, mezzi coreani, son disperzzati, relegati nelle fasce più basse e costretti ai lavori peggiori. Son coreani di altre origini etniche, o mezzosangue, con solo un genitore coreano. In Black Stone – titolo ahinoi fortemente metaforico come si evince poi nel corso del film – vediamo una famiglia diversamente, imperfettamente coreana. Con un padre di origini filippine, la madre di ascendenze cinesi. Tutti e due lavorano in un lurido mattatoio e fabbrica di impacchettamento di polli, alcuni mostruosamente deformati da una qualche contaminazione, e par di rivedere le scene più atroci di La morte ha fatto l’uovo dell’appena scomparso, e molto compianto, Giulio Questi. Il figlio è militare, recluta in un qualche avampoisto fose con vista sulla Corea del Nord. Dove vienen nonnizzatto e bullizzato da piccoli e grandi superiori, e ha pure il guaio di essere tropo bello, così da attirare l’invidia dei compagni e il desiderio di un ufficiale (e sembra di rivedere il Marlon Brando di Riflessi in un occhio d’oro di John Huston). Ufficiale che una notte violenta il bel mezzosangue lasciandogli in pessima eredità il virus dell’Aids. Sembra fino a questo punto un melodramma di realismo e sfighe sociali. Invece, inaspettattamente, Black Stone vira sul fantastico-surreale-immaginifico-visionario ossessionato dalla contaminazione e dall0inquinamento di paesaggi, cose, corpi, menti. Con un final di morti-non morti che ricorda un filo lo zio Boonmee di Aichathpong Weeresathukul e con una redenzione globale(degli umani, dell’ambiente) mistico-sciamanico-panteista. E le pietre nere (da petrolio fuoruscito da un tank coreano) diventan bianche. Mah. Al netto delle sue insopportabili fumisterie e misticherie, un film utilmente disturbante e dark.
4) Norfolk di Martin Radich. Sezione Concorso Hivos Tiger. Voto 4
Un padre e un figlio in una casa di raro squallore, si guatano, si odiano. In un’Inghilterra rurale e disadorna da vite perdute, da destini maciullati. E ti aspetti un film di quelli tosti alla Andrea Arnold, o tipo The Selfish Giant di Clio Barnard. Macché. Trattasi di oggetto cinematografico non facilmente identificabile, con derive fantasy-noir e surreali. Come se il Jonathan Glazer di Under the Skin incontrasse Ken Loach. Senza però il talento né dell’uno né dell’altro. Si è appena usciti da una qualche guerra, son molte le divise, le bandiere, le armi ancora in circolazione. Come se un altro conflitto potesse esplodere da un momento all’altro. Il padre è un ex mercenario, c’è una mincciosa coppia di anziani di cui conosceremo più tardi la connessione con il ragazzo. Il quale intanto si è innamorato di una coetanea prigioniera di un gruppo di fanatici rivoltosi (di destra? di sinistra? paion più di destra). Il tutto messo in scena nei modi isterici di tanta videomusica e di tanti commercial. Con il risutato, signora, mia, che non si capisce niente e non ce ne importa niente. Film che i critici anni Settanta avrebbero bollato come velleitario.
5) Man on High Heels, di Jang Jin. Sud Corea. Voto 8 e mezzo
Jiang Jin chi? Confesso, non lo conoscevo. Eppure è considerato uno dei maestri di quello che è forse il cinema più vitale al mondo, il più sfrenato e naturalmente, geneticamente estremo, insomma l’adorato e qualche volta detestato cinema sud coreano. A Jang Jin, regista eclettico in grado di attraversare più generi, dall’action alla comedy al film politico, Questo Rotterdam Featival dedica una retrospettiva, che si sta rivelando uno degli eventi imprescindibili. Io ieri sera di Man on High Heels, il più recente lavoro di Jang Jin, son caduto folgorato, innamorato pazzo. Film enorme, grande spettacolo popolare e insieme sovversivo e audacissimo nell’attraversare i codici del cop-movie e di annichilirli, ribarltarli, negarli, riscriverli. Avendone però sempre il massimo rispetto. Da restare a bocca aperta. L’uomo in tacchi alti è qualcosa di inusitato e perfino inaudito, di mai visto, per come tratta omosessualità e mondo trasngender: fuori dal coro dominante del politicamente correttissimo, del pucci-pucci delle omocoppiette in abito da sposi, della gender culture del genitore A e genitore B. No, la storia che Jiang Jin ci racconta è di carne e passioni e anche sangue, un corpo a corpo con la realtà, un’immersione negli abissi del desiderio. Il tutto inscritto in un perfetto poliziesco, vale a dire il genere cinematografico maschile e virile per eccellenza. Ma è proprio questo che fa di L’uomo in tacchi a spillo qualcosa di memorabie, il fatto che l’omosessualità sia cosa senza mollezze e effemminatezze, vista dall’autore con uno sguardo pienamente maschile. e se penso a un altro regista che potrebbe tentare una simile operazione è Clint Eastwood (e in parte l’ha già fatta con Mezzanotte nel giardino del bene e del male). Yoon (interpretato meravigliosamente da Cha Seungwon, l’attore feticcio di Jiang Jin) è il meglio poliziotto dell’anticrimine di Seul, il più figo, il più spietato. Con una coolness da vero eroe. Entra in scena nel film irrompendo a un banchetto di un boss della mafia locale, colpendo di mani e piedi e di lame, in una meravigiosa sequenza di arti marziali acrobatiche coreografata come un Busby Berkeley, con tempi di implacabile precisione. Da applauso. E alla fine della scena difatti il pubblico di Rotterdam sbotta in applauso (e alla fine sarà trionfo vero). Ora, questo eroe che porta sul suo corpo perfetto le cicatrici di tante battaglie e dentro la care pezzi di metallo-protesi, ha un segreto, che scopriamo molto presto. Yoon, il maschio più adorato di Seul – dalle donne, dai colleghi, perfino dai nemici – vuole cambiare sesso, si fa iniezioni di ormoni femminili, è in attesa dell’intervento chirurgico fatale. E intanto si fa dare lezioni di trucco e varie femminilità da una bellissima trans. Ha deciso di ritirarsi dalla polizia, ma intanto continua a combattare come sa e può il malaffare. Sicché vediamo le perfomance del macho Yoon alternarsi alle sue sedute di trucco o dal medico che lo sta ormonizzando. Alle spalle c’è un amore adolescenziale con un compagno di scuola fiito in tragedia, e par di rivedere The Imitation Game, solo che qui gli sdilinquimaneti e i batticuori sono perfettamente funzionali al gran romanzo popolare che Jang Jin intende conbfezionare. Succederà di tutto. Scontri sanguinosi. Omicidi in serie. E Yoon diviso tra le sue due identità. Con un’infinità di twist, e un finale non così inasettato, ma ambiguo e apertissimo.Riflessione in forma di action movie sulla natura o non-natura dei ruoli e dele identità sessuali, su come sia facile oltrepassarne il confine, su come l’omosessualità sia intimamente impastata con la virilità e forse oscuramente le appartiene, non ne è la negazione. Un film che vale centro Gay Pride e mille dibattiti sui matrimoni gay. Travolgente. Di impeccabile confezione. Con volute e naïf rozzezze da spogliatoio maschile e inaudite raffinatezze stlistiche: come lo Yoon in azione sotto la pioggia contro un branco di mafiosi, ed è tutto un voteggiare tra Jacques Demy e Stanley Donen e Wong Kar-wai. Ssalvo più tardi rifare la stessa scena ma senza leggiadria, facendone un massacro un cui il sangue scorre letteralmente a fiumi. Capolavoro, capolavoro, capolavoro. Alla fine pubblico in delirio.


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