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Salari minimi e occupazione. Risposta alle critiche

Creato il 27 giugno 2012 da Keynesblog @keynesblog
Salari minimi e occupazione. Risposta alle critiche

L’aumento dei salari minimi provoca disoccupazione, secondo i libri di testo

Diversi lettori, nonché il blog noisefromamerika, hanno contestato il nostro articolo riguardo l’esperienza americana dei salari minimi. In questo post riassumeremo le critiche e proveremo a dare loro delle risposte.

1) I dati non dimostrano l’esistenza di una correlazione positiva tra l’aumento dei salari minimi e l’occupazione. La dispersione dei punti nel caso considerato è ampia e il coefficiente di correlazione e quello di determinazione sono bassi (R=0,55, R^2=0,30).

A questa prima obiezione la risposta è semplice: l’articolo non intende dimostrare la validità della tesi opposta a quella contenuta nella teoria neoclassica, cioè l’ipotesi che l’aumento dei salari minimi abbia ripercussioni positive sull’occupazione invece che negative. Più semplicemente si intendeva presentare dei dati che confutano la tesi che l’aumento dei salari minimi abbia effetti negativi sull’occupazione, come prevede la teoria neoclassica. L’intento è perfettamente chiaro del resto nel titolo dell’articolo.

Se esso fosse stato quello attribuito dai critici, si sarebbe scelto senza dubbio un esempio differente rispetto agli Stati Uniti del 2009-2011. Come verrà evidenziato nella risposta successiva, le caratteristiche del mercato del lavoro americano e altri fattori come l’apertura delle economie degli Stati che ne fanno parte, rendono il contesto sfavorevole alla dimostrazione della tesi contraria a quella del mainstream neoclassico.

Alcuni lettori hanno puntato il dito sul fatto che non ci siamo limitati a mostrare i dati in tabella ma abbiamo voluto calcolare e mostrare la correlazione lineare. Ci è sembrato utile andare oltre la semplice esposizione tabellare per evidenziare come, se proprio si vuole trovare una correlazione, essa sia positiva e non negativa come afferma la teoria mainstream. Dai dati si può legittimamente concludere che tale correlazione non sia particolarmente significativa e che quindi richiederebbe ulteriori verifiche empiriche.

La questione degli effetti occupazionali del salario minimo è ampiamente dibattuta in letteratura. Myth and Measurement: The New Economics of the Minimum Wage di David Card e Alan Krueger (autori di due dei paper citati nell’articolo) si segnala in particolar modo per la metodologia adottata, simile a quella utilizzata in medicina, che prevede gruppi di controllo. La voce di Wikipedia in lingua inglese riporta diversi riferimenti utili, sia teorici che empirici: http://en.wikipedia.org/wiki/Minimum_wage

Un paper molto noto a favore della “conventional wisdom” fu realizzato nel 1992 da Neumark e Wascher e mostrava una forte correlazione tra incremento del salario minimo e disoccupazione giovanile. David Card e Alan Krueger [link: http://www.econ.ucdavis.edu/Faculty/ahstevens/cardkatzkrueger94.pdf ] contestarono successivamente lo studio, affermando che esso soffriva di due falle fatali: la prima era che escludeva gli studenti dalla popolazione lavoratrice, mentre è comunissimo negli USA che i teenager lavorino part-time. Eliminando questo errore, la correlazione negativa e significativa spariva, mentre appariva una correlazione positiva ma non significativa. Ma l’errore più rilevante era che l’equazione usata dagli autori in realtà metteva in relazione il tasso di occupazione giovanile con il suo complementare (1-tasso di occupazione) con l’ovvio risultato che la correlazione risultava negativa e con una significatività statistica inusualmente elevata per ricerche econometriche. Ciò non ha impedito a Neumark e Wascher di ripetere lo stesso studio con dati aggiornati negli anni successivi.

2) i dati si riferiscono agli Stati Uniti e ad un periodo di tempo limitato

Non di meno occorre domandarsi se i casi in esame siano interessanti per sottoporre a test la tesi convenzionale. I motivi per cui si può ritenere che lo siano sono molteplici:

  • i dati raccolti si riferiscono al principale paese capitalista del mondo, non ad una economia di piccole dimensioni;
  • riguardano un periodo di recupero dopo uno shock recessivo;
  • sono riferiti ad un periodo recente, il che riduce la possibilità di errori statistici dovuti a metodi antiquati;
  • riguardano il capitalismo odierno, caratterizzato dall’economia dei servizi; alcuni suggeriscono che le teorie alternative avevano qualche utilità pratica in passato, nella società industriale fordista, ma siano del tutto inutili nell’era post-industriale, nella quale la teoria economica neoclassica darebbe risultati più vicini alla realtà; il test suggerisce che sono però le tesi neoclassiche a mostrare difficoltà esplicative nell’economia di mercato attuale;
  • poiché i dati riguardano stati interni ad una federazione, essi sono relativi ad economie aperte (almeno dal punto di vista normativo), con un mercato unico e una moneta unica, inserite in uno Stato federale in deficit commerciale, sicché gli effetti dispersivi di un aumento salariale (le persone comprano prodotti provenienti da altri stati o addirittura esteri invece che locali e americani) sono probabilmente più elevati;
  • gli USA sono caratterizzati dal mercato del lavoro meno protetto tra i paesi OCSE, con un bassissimo indice di protezione del lavoro e alta mobilità dei lavoratori, una condizione ideale per il punto di vista neoclassico.

Tutte queste considerazioni rendono i dati presentati un interessante banco di prova per la teoria neoclassica dell’occupazione.

Ma l’obiezione è in sé viziata: l’onere della prova spetta a chi afferma, non a chi confuta. Chi confuta può limitarsi a mostrare che la presunta legge non si applica in un caso che è relativamente vicino alle condizioni ideali, così come vengono proposte da chi afferma.

3) La moderna teoria mainstream dispone di modelli molto più sofisticati del banale diagramma da libro di testo che mette in relazione i salari reali e l’occupazione. Tali modelli tengono conto di svariate “imperfezioni” nel mercato del lavoro che allontanano il risultato attuale da quello atteso. Questi modelli sono in grado di spiegare i risultati ottenuti pur mantenendo valida la legge generale dell’occupazione neoclassica.

Non mettiamo in dubbio che tali modelli siano in grado di ottenere quanto sostenuto. Tuttavia ribadiamo che il caso preso in esame riguarda il mercato del lavoro meno rigido nel mondo occidentale. Tra le poche rigidità vi è appunto la presenza di un salario minimo, la cui relazione con la diminuzione del livello di occupazione non è verificata. Se anche nell’ambiente reale più favorevole diventa difficile verificare la teoria nella sua forma essenziale, allora si potrebbe avanzare legittimamente il dubbio che essa sia inservibile per rappresentare la realtà.

Ma la domanda pone un interrogativo epistemologico più profondo. Può succedere che un modello teorico fondamentalmente errato possa portare a risultati corretti, se opportunamente modificato. Ad esempio, il modello tolemaico del sistema solare descriveva abbastanza correttamente il moto di pianeti ed astri così come osservato dalla Terra; per farlo, tuttavia, aveva bisogno di numerose ipotesi aggiuntive, in parte arbitrarie, come ad esempio l’idea che i pianeti non ruotassero solo intorno alla Terra come il Sole, ma anche intorno ad un punto dell’orbita, senza una spiegazione fisica del perché di questa strana eccezione; la presenza di satelliti di altri pianeti, scoperta da Galileo, poteva essere inclusa nel modello supponendo altre ipotesi aggiuntive; qualsiasi altro moto scoperto successivamente può essere incluso nel modello tolemaico, semplicemente aggiungendo ulteriori ipotesi, fino a costruire un modello in cui le ipotesi aggiuntive sono sempre più numerose e sempre più lontane dal principio generale (i corpi celesti si muovono intorno alla Terra con orbita circolare).

La scienza però ha stabilito di non servirsi più di questo complicato e bizantino modello. E lo ha fatto proprio quando Galileo scoprì che intorno a Giove vi erano dei satelliti, sebbene ciò potesse essere ricondotto ancora, con un po’ di sforzo, nel modello precedente.

Il mainstream può sicuramente spiegare molti fenomeni dell’economia, attraverso ipotesi “imperfezionistiche” sempre più sofisticate e assunzioni dall’aspetto arbitrario (come le aspettative razionali). Ciò però rafforza il dubbio che il modello sia fondamentalmente errato. Se ciò fosse vero, “applicarlo ai fatti dell’esperienza”, come ricordava Keynes, condurrebbe “a risultati disastrosi”.

4) La deflazione salariale può funzionare per accrescere la competitività e aumentare l’occupazione, come dimostra il caso tedesco

E’ sicuramente vero nelle particolari condizioni europee. Va tuttavia ricordato che questo meccanismo funziona finché lo adotta solo un paese (o pochi). Se tutti lo adottassero, il meccanismo non funzionerebbe più, poiché la domanda aggregata complessiva calerebbe.

Tuttavia, nel caso americano, con standard salariali minimi parzialmente stabiliti a livello federale, questo è molto meno probabile. Qualcosa di simile potrebbe essere tentato in Europa. Ad esempio, la proposta di uno standard salariale europeo per evitare la concorrenza basata sulla deflazione dei redditi da lavoro, avanzata da Emiliano Brancaccio[1], va appunto nella direzione di limitare la concorrenza sui bassi salari tra i paesi dell’Unione Europea. Proposte di questo genere, in un quadro di riforma dell’UE che preveda trasferimenti fiscali, debito pubblico federale e riforma della Banca centrale, tendono a creare nel Vecchio Continente le condizioni economiche di uno stato federale, invece che perpetuare un’area monetaria in cui ogni componente tenta di competere con il proprio vicino sobbarcando i costi quasi interamente sul lavoro.

5) Il salario minimo influisce solo su alcuni segmenti del mondo del lavoro, quelli in cui i salari sono minori, come i fast food o la grande distribuzione modello Walmart, mentre non ha influenza sui settori come l’industria automobilistica o l’alta tecnologia. Inoltre esso interessa in particolare i giovani.

Alcuni degli studi raccolti nella tabella riguardano in particolare questi settori produttivi e fasce d’età più influenzati dalla presenza del salario minimo e concludono che non vi è correlazione negativa tra incremento dei salari minimi e occupazione, anche giovanile, in tali settori. In particolare:

  • David Card and Alan B. Krueger, “Minimum Wages and Employment: A Case Study of the Fast-Food Industry in New Jersey and Pennsylvania: Reply,” American Economic Review 90 (5) (2000): 1397-1420.
  • Lawrence F. Katz and Alan B. Krueger, “The Effect of the Minimum Wage on the Fast-Food Industry,” Industrial and Labor Relations Review 46 (1) (1992): 6-21.
  • Sylvia A. Allegretto, Arindrajit Dube, and Michael Reich, “Do Minimum Wages Really Reduce Teen Employment? Accounting for Heterogeneity and Selectivity in State Panel Data,” Industrial Relations 50 (2) (2011): 205-240.

Speriamo di aver così risposto alle critiche avanzate al nostro articolo. Il dibattito rimane ovviamente aperto. Nel frattempo però i precetti della teoria neoclassica dell’occupazione, nella sua più rozza versione (cioè che la diminuzione del salario minimo favorisce l’occupazione), vengono applicati in Europa meridionale, pur senza una convincente verifica empirica.

Note:

[1]  L’austerità è di destra di E.Brancaccio e M.Passarella, Il Saggiatore, cap. 15 “Per uno standard retributivo europeo” per una esposizione divulgativa e Emiliano Brancaccio, Current account imbalances, the eurozone crisis and a proposal for a European wage standard, di prossima pubblicazione su International Journal of Political Economy, 41, 1.


Filed under: Economia, Lavoro, Teoria economica Tagged: minimum wage, salario minimo

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