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Samurai Champloo: da Shinichirō Watanabe ci si Aspettava di Più!

Creato il 11 gennaio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il gennaio 11, 2012 | CINEMA | Autore: Mario Turco

Samurai Champloo: da Shinichirō Watanabe ci si Aspettava di Più!Non è che sia all’esclusiva ricerca di capolavori, ma questo “Samurai Champloo” mi ha infastidito. Non è spazzatura, non è un anime tamarro, non è geniale, non è divertente, non è drammatico. Non è nemmeno nulla, in tal caso sarebbe stato meritevole di attenzione. Alla fine della serie la sensazione che mi ha pervaso è stata quella di un colossale spreco di tempo. “Samurai Champloo” è un anime così calcolato, così furbo, così gradevole da risultare inutile. Shinichirō Watanabe, già regista del ben più valente “Cowboy Bebop”, continua a ingrassare un meccanismo più che oliato che rivela il suo fragile esoscheletro commerciale ad appena la sua seconda prova importante. Più che da un cineasta, questa serie del 2004 prodotta dalla Manglobe sembra uscita da una congrega di lungimiranti direttori di marketing. “Samurai Champloo” ripropone infatti tutti gli elementi monetizzabili del fortunato “Cowboy Bebop”, senza averne l’originalità e la libertà creativa. In 26 episodi (troppi anche per essere una serie breve), è davvero smaccata l’assenza di una qualsiasi storia principale. L’esiziale trama che collega i tre protagonisti è già dipanata all’interno della prima puntata e ritoccata fievolmente nel corso delle successive. Ad essere debole non è l’idea di una cornice unitaria che al suo interno ospita episodi slegati tra loro, quanto la sua messa in opera. La scrittura è piatta, superficiale, implausibile. La serie si prospetta come un lungo viaggio verso una meta precisa e Shinichirō Watanabe decide di raccontarne le tappe che lo compongono, tipico rifugio creativo del regista di anime paludato. Passi la scelta di una narrazione consolidata ma anche lo sviluppo dei personaggi è effettuato con la calcolatrice.

Samurai Champloo: da Shinichirō Watanabe ci si Aspettava di Più!

I tre protagonisti, oltre che doverosamente “cool”, si adattano all’identificazione di un pubblico il più possibile trasversale. Mugen, con la sua avventatezza e irruenza, sarà amato dai ragazzi più inclini all’azione. Lo stoico e impassibile Jin sarà il beniamino degli spettatori più riflessivi. La bella Fū Kasumi, in grado di tenere testa con simpatia al duo dei suoi scatenati compagni di viaggio, attrarrà l’approvazione femminile. Un triangolo così eterodiretto è facilmente sfruttabile per siparietti comici e situazioni drammatiche che hanno il difetto di scriversi da sole. Mi riferisco al fatto che agli occhi di uno smaliziato spettatore gli intrecci appaiono terribilmente prevedibili e, ancora di più, a chi abbia visto i precedenti lavori di Watanabe, soprattutto “Cowboy Bebop”. In quell’anime lo strano incrocio tra fantascienza, jazz, avventura, tragedia e ironia riusciva a sorprendere. In questa serie, fatta con uno stampino dove a cambiare sono solo i colori ma non la forma, il miscuglio tra rap, la capoeira di Mugen e la parodia di alcuni generi, risulta artatamente inscenata. La vicenda è ambientata in un immaginario periodo Edo della storia giapponese, scelto più che altro per dare maggior contrasto allo straniante connubio di musiche rap in sottofondo e un linguaggio compiacentemente scurrile. L’anime si concentra esclusivamente sui tre protagonisti principali e i comprimari rimangono al massimo in scena per non più di tre puntate, sacrificabili come pedine di una scacchiera. Con un tale meccanismo naturalmente alcuni hanno una fortunata dignità artistica, altri scivolano nel patetico.

Samurai Champloo: da Shinichirō Watanabe ci si Aspettava di Più!

Purtroppo quasi tutte le puntate sembrano dei filler, messi lì soltanto per garantire un numero accettabile di storie. Inspiegabile ad esempio la puntata 12 che si limita a riassumere gli eventi occorsi in quelle precedenti, come se la fragile narrazione avesse bisogno di un chiarimento. Da dimenticare inoltre alcuni episodi che attingono con malcelata sfacciataggine dalla tradizione più popolare degli anime. Anche in questa serie troviamo infatti la presenza del nerboruto assassino emarginato dalla società perché mostruoso; o la strappalacrime vicenda del ragazzo che ruba per comprare le medicine alla madre malata; o ancora, la classica finta rottura tra i tre protagonisti che incroceranno le rispettive avventure che vivranno. In mezzo a tanto mestiere della più bassa lega, alcune puntate riescono a stagliarsi per originalità. Le migliori sono quelle che più esulano dal contesto: in particolare la puntata della gara dei graffiti e quella dove Mugen sgomina una banda di falsari perché astutamente coinvolto da un’investigatrice travestita da prostituta. Nelle ultime puntate il respiro guerriero che a sprazzi Watanabe aveva provato a dare alla serie, raggiunge inevitalbimente il suo zenit, con l’apparizione di nemici finalmente ben caratterizzati e temibili. Si tratta però di un canto del cigno che, più che sugellare l’ultima impresa, lascia l’amaro in bocca. Tecnicamente la serie non si discute: bel character design, ottime musiche, animazioni splendide, scene di combattimento ben coreografate. La versione italiana può inoltre contare su un’ottima traduzione (i dialoghi sono di Luca Privitera e Lisbeth Adams) e su un eccellente parco-voci: Christian Iansante (Mugen), Loris Loddi (Jin), Alessia Amendola (Fū Kasumi). Con tali mezzi artistici, si poteva creare qualcosa in più piuttosto che puntare scientemente a un prodotto lubricamente desideroso di attestarsi a una insipida sufficienza.



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