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Sangue d’acero (racconto molto pulp)

Creato il 21 ottobre 2013 da Iltondi @iltondi

Genere e numero approssimativo di battute: umoristico/pulp, 4.200 battute

Qualche nota: Si scherza sul genere pulp, raccontando un semplice episodio immaginato all’interno di una tavola calda americana, tra arredi squallidi, brutti ceffi e violenza gratuita. Un racconto tratto dalla raccolta “Io, Carver e il taccuino di Chatwin” (edito dapprima da Bookolico e poi pubblicato su Amazon. In vendita in versione e-book a € 0,99)

Entrai nella tavola calda. Era l’una del mattino e c’era solo una coppia tra i clienti del locale. Lei mi sembrava un agnellino che aveva perso il gregge, sguardo smarrito e mosse accorte, timorose. Lui era un brutto ceffo, il più brutto dei ceffi, basti dire questo. Il tizio si girò verso di me e mi fulminò con un’occhiata minacciosa, manco mi conoscesse e gli avessi fatto qualcosa di grave. Mi avvicinai al bancone, mi sedetti su uno sgabello e indicai la brocca di caffè alla cameriera, solo alzando il mento. Lei mi passò il caffè e io ne versai una tazza. Mentre lo sorseggiavo, vagai con gli occhi a osservare la squallida galleria di foto appese alle pareti. Le passai in rassegna: ognuna di quelle immortalava un ometto di mezza età, paffutello, coi baffoni folti e il volto scimmiesco, immagino fosse il proprietario del locale; compariva insieme ai clienti e ai camerieri. I clienti, molti di loro, avevano un sorriso artificiale, per niente spontaneo e anzi imposto dalla situazione. I camerieri invece un’espressione triste e rassegnata, come quella della ragazza che mi aveva servito il caffè. L’ometto coi baffi al contrario mostrava sempre un gran sorriso genuino, e stava in posa, fiero e felice. Nemmeno una foto con clienti famosi. Evidentemente, i clienti famosi si tenevano alla larga da posti del genere. Terminando la mia panoramica, finii con gli occhi sull’agnellino, la ragazza del brutto ceffo. La guardai per un microsecondo, giusto il tempo di accorgermi che non era il caso. Non mi piaceva nemmeno. Lei mi restituì lo sguardo, ma il suo era spaesato e inespressivo. Poi si voltò lentamente verso il suo uomo.

«Questo mi guarda», gli disse.

Il brutto ceffo si alzò all’istante, facendo stridere i piedi dello sgabello sul pavimento a scacchi, anni 50. Era alto sul metro e novanta, più o meno, pelato, tatuaggi ovunque, e un corpo dove di tatuaggi ce ne stavano parecchi. Non importa se c’è solo un tizio che ce l’ha con te. Se quello è bello grosso, sono cazzi amari.

«Che cazzo fai, stronzo» esordì lui, guardandomi come fossi un esserino piccolo piccolo, col mento all’insù.

«Sto bevendo questa merda di caffè, non lo vedi?» ribattei io, sprezzante delle conseguenze.

«Guardavi la mia donna. Scommetto che le mezze seghe come te non ce l’hanno mai avuta una donna…»

«Non carina come la tua», gli detti la mia risposta serrata, condita di sarcasmo. Lui magari lo afferrò il mio sarcasmo, ma non lo apprezzò più di tanto.

Qualcos’altro che afferrò fu una bottiglia di sciroppo d’acero. La prese bene tra le mani e in un gesto repentino me la spaccò sul cranio.

Il sangue mi colava dalla testa, misto allo sciroppo d’acero. Veniva giù dalle tempie, attraversava gli zigomi e rallentava la sua corsa incontrando la barba. Il brutto ceffo mi fissava con sadico piacere, contento e orgoglioso della sua opera. Teneva stretta in mano la bottiglia spaccata e il braccio alzato, pronto a colpire di nuovo. Mi portai con un movimento volutamente rallentato un dito allo zigomo e raccolsi quella sostanza di una strana densità. Misi il dito in bocca e l’assaggiai.

«Non male», dissi. «Ma sarebbe stato meglio sui pancake, invece che sulla mia testa.»

Fissai il tizio, lui mi fissò. Abbassò il braccio, un’espressione perplessa. «Questo è tutto matto», disse all’indirizzo della sua donna. Lei non commentò, né manifestò sorpresa o preoccupazione. Pareva indifferente a ogni evento dell’universo. Chissà se un’emozione, anche piccola, l’aveva mai trapassata in vita sua.

La cameriera invece sembrava attratta da una goccia del mio sangue mischiato allo sciroppo d’acero, che era schizzata sul bancone.

«Assaggiala pure. È buona», le feci io, invitandola con la mano. Lei tese il dito e raccolse la sostanza. Se lo leccò di gusto. «Potresti chiamarla sangue d’acero», le suggerii. Lei annuì leggermente.

Detti un’ultima occhiata al brutto ceffo e alla sua donna.

«Arrivederci, signori», dissi, simulando un rapido saluto militare con la mano alla fronte.

Loro non risposero, rimasero immobili, mi parvero persino spaventati.

Uscii dalla tavola calda, lasciandomi dietro una scia di goccioline di sangue d’acero. Non importa quanto il tizio che ce l’ha con te sia grosso. Se tu sei più matto di lui, te la caverai.



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