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Sanremo 1967: la morte di Tenco e l’insostenibile peso di un mondo di luci.

Creato il 01 febbraio 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

“Questo gesto assurdo condanna tanta gente, condanna tanti di noi, di noi che facciamo parte di un determinato mondo, moderno, di oggi, un mondo che ci ha presi e non ci lascia più”.

Le parole di Lello Bersani riassumono lo stupore e l’incredulità di un epilogo che nessuno si sarebbe aspettato, non quella sera, non in quel luogo, né in quel contesto.

27 gennaio 1967. È la serata centrale del festival di Sanremo. La cittadina ligure è come sempre invasa dal mondo dello spettacolo italiano al completo. Sul palco del Casinò di Sanremo è Mike Bongiorno a presentare, assieme a Renata Mauro. Solo nel 1977 il Festival della canzone italiana si sposterà all’Ariston. Tutt’Italia segue l’evento, un’Italia diversa, per certi versi migliore, per certi versi peggiore rispetto a quella di oggi. Il clima è quello degli anni ’60, le suggestioni quelle dell’Italia che ormai si allontana sempre di più dagli eventi della Seconda Guerra Mondiale, costruendo con questa rinascita la propria identità.

Luigi Tenco arriva a Sanremo per presentare un brano in coppia con Dalida, cantante italiana nata in Egitto e vissuta a Parigi per alcuni anni. Tra i due c’è una relazione sentimentale, che alcuni considerano una trovata pubblicitaria delle case discografiche. Hanno in programma di presentare un duetto su “Ciao amore ciao”. La canzone è stata presentata ai provini, ma successivamente Tenco ha deciso di modificare il testo. Una scelta personale, repentina, che rivestirà un ruolo fondamentale nella catena di eventi che sta per accadere.

Nonostante il connubio tra due voci decisamente valide e particolari, la canzone non ha successo. La giuria di Sanremo la scarta e, quando è il momento di scegliere un brano da ripescare, ad essere favorita è “La rivoluzione” di Gianni Pettenati. Tenco è furioso, amareggiato. Sente che la sua canzone non è stata apprezzata come avrebbe dovuto essere. Trova ingiusto il verdetto della giuria.

La serata finisce. Tenco si ritira nella propria stanza, la 219 di una depandance dell’hotel Savoy. Lo troveranno più tardi, a terra, morto, con un foro di proiettile alla testa, i piedi incastrati sotto il cassettone e un biglietto recitante le seguenti parole:

“Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”

Il suicidio di Tenco scuote l’Italia perchè avviene in un contesto che si pone come sintesi della nazione intera. Nel bene e nel male, nelle polemiche e nei successi, Sanremo rappresenta gli usi, i costumi, le pecche e l’umore della società italiana, e quest’evento già di per sè tragico scuote quel mondo di vallette e comicità all’italiana dimostrando che il palco ligure, e con lui l’Italia, non brilla come vuole far credere di brillare. Tenco spiazza con il suo gesto tuttora inspiegabile, sbriciola un velo di giovialità ed ipocrisia che nessuno aveva programmato di strappare, tantomeno a Sanremo, tantomeno di fronte a tutt’Italia. È un gesto, il suo, che improvvisamente rivela una malinconia ed una disperazione che sono sempre il rovescio della medaglia, il lato che si tiene nascosto, che si nega di vedere e che ci si ostina a non rivelare agli altri. Tenco influenza i suoi contemporanei e amici ma anche le generazioni successive, che lo vedono come esempio lampante di una sensibilità che stona con il panorama dell’epoca, musicale e non.

La questione ha una risonanza enorme. Le telecamere RAI sono fisse su Sanremo, in quei giorni, e di conseguenza la notizia si diffonde rapidamente. Il mondo della musica è scosso. Dalida, che soffre di depressione da anni, tenta il suicidio un mese dopo a Parigi. Gli omaggi si sprecano. Fabrizio De Andrè scrive “Preghiera in gennaio” per Tenco. Dentro e fuori dal mondo musicale tutti ne parlano e tutti hanno opinioni diverse. Alcuni sostengono che il cantante sembrasse in cattive condizioni psicofisiche già prima e durante l’esibizione, altri che non avesse realmente voglia di partecipare al festival; il dettaglio dei piedi incastrati sotto l’armadio e del proiettile che non è mai stato trovato portano alcuni a ritenere che il cantante non si sia davvero suicidato, ma piuttosto sia stato assassinato. Seguendo questa ipotesi, il fratello Valentino riesce ad ottenere, nel dicembre 2005, la riesumazione della salma per ulteriori analisi.

Il caso è definitivamente chiuso pochi mesi dopo, nel febbraio 2006. Il verdetto finale è confermato. Suicidio. Ce ne si chiede il motivo. Ci si chiede se sia davvero possibile commettere un gesto del genere per una delusione professionale legata ad un singolo evento, ad una singola edizione di Sanremo, ad un unico momento della propria carriera artistica. Per Lucio Dalla, suo grande amico, non è così. “Io escludo che si muoia per una canzone”, affermerà in un’intervista. Probabilmente l’unico a saperlo davvero è, fu, Luigi Tenco.

Oggi, alla vigilia di Sanremo 2015, il Festival del 1967 può essere a ragione considerato l’edizione più tragica della kermesse. Un epilogo estremo eppure tremendamente umano. “In un mondo di luci, sentirsi nessuno”, cantava Tenco, quella sera di quarantotto anni fa. E forse la risposta, l’unica possibile, è da ricercare in queste parole.

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