Magazine Diario personale

Santa Lucia

Da Mizaar

SantaluciaEsterina era vivace come un maschio. Così diceva sua nonna quando la vedeva correre senza ragione apparente tra i campi davanti casa, insieme ai suoi compagni di giochi, i figli di Biasu il confinante. Giocava con loro perché non c’erano compagnucce e perché era piccola, ancora. Le altre sorelle più grandi la guardavano con disprezzo e molta invidia, a loro non era permesso stare con i ragazzi, ormai avevano obblighi da adulte, aiutare la mamma non era cosa da poco. E per quanto non ci fosse una così grande differenza d’età, le altre erano costrette in casa dalla convenzione mentre Ester godeva di una libertà egoista e spensierata. Molte volte, però, Esterina s’era cacciata nei pasticci per via di quell’indole da selvaggia. Sempre glielo diceva suo padre di smetterla: Uno di questi giorni vedrai cosa ti capita, l’ammoniva bonario. E il giorno si presentò, come chiamato all’appello. Era estate. Il padre cuoceva in una fornace la calce viva, spegnendola in parte in una grande vasca piena d’acqua. La calce gli sarebbe servita per purificare la casa, imbiancandola. Esterina correva e correva. La nonna la richiamò più volte, ma Ester non ascoltò o forse finse di non ascoltare. Quell’enorme calderone bianco le sembrava l’antro dell’inferno fatto compiuto, lo stesso che ricorreva nei racconti della nonna quando, per frenarla presso di sé, l’ammaliava con quelle storie fatte di fuochi e di diavoli, tanto da sembrarle, l’inferno, un posto divertente dove sicuramente si sarebbe trovata a suo agio – così rifletteva anche la vecchia, peccando, forse, per avere simili considerazioni su quella piccolina. Il pensiero distrasse la vecchia perché, in quel preciso momento, sentì la nipote urlare e subito dopo suo figlio imprecare. Lo vide correre verso la vasca della calce spenta. Esterina, bianca da capo a piedi era nella calce e si dibatteva come una mosca prigioniera in un bicchiere di latte. Suo padre continuò ad imprecare verso se stesso e verso quel diavolo di figlia; in un attimo la sollevò e prese a cacciarle via dal volto tutto quel bianco, liquido e gocciolante. Ma la bambina spaventata e piangente urlava ai quattro venti che non riusciva a vedere più. La nonna le lavò immediatamente il volto, ma la bambina continuava a non vedere. Accorsero tutti quelli che stavano in casa, i vicini, i figli di Biasu. Quest’ultimo disse al padre: Portiamola al paese, dal dottore. Fu una corsa all’impazzata con la vecchia moto Guzzi del confinante, Esterina bianca a chiazze, il viso spaventato lavato dall’acqua e dalle lacrime, stretta tra suo padre e Biasu. Il medico la visitò con scrupolo e poi decretò per quella piccola la cecità. La calce, spiegò, le aveva bruciato gli occhi. Il padre con quelle mani enormi da contadino prese a schiaffeggiarsi per non essere stato capace di tenere a freno la bambina, di non essere stato capace di legarla, anche, se fosse servito a non rendere inferma sua figlia. La portarono a casa, così come erano andati. Piansero tutti, disperati. Piansero anche le sorelle confuse, convinte che l’invidia che avevano provato per Esterina avesse provocato l’incidente – l’invidia, ben sapevano, è un peccato grave che mai bisognerebbe provare, così ammoniva la nonna. Da quel giorno la nonna prese a portare la bambina in chiesa ogni giorno, chiedendo la grazia a santa Lucia, la santa della luce. L’immagine campeggiava su un altare secondario; su una grande tela era raffigurata una giovanetta con un vassoio in mano, sul quale erano compostamente adagiati due bulbi oculari. Nell’altra mano una palma, simbolo di martirio. Furono le prime cose che Esterina vide il tredici dicembre, durante la messa per celebrare la gloria della santa. Mentre la nonna recitava, come tutti i giorni, le litanie per la salvezza della nipote, Esterina chiese alla donna: Nonna perché quella ha in mano un piatto con gli occhi? facendo segno verso l’altare. La donna guardò sgomenta quella nipote che, per quanto fosse piccola, ancora ricordava l’immagine della santa, guardata, forse, quando ancora aveva la grazia della vista. Le rispose distrattamente impegnata a non perdere il filo delle preghiere. Poi si fermò. Un pensiero le balenò nella testa, un pensiero che riteneva quasi impossibile da formulare, figurarsi se poteva dar conto a se stessa della fondatezza di quell’illuminazione blasfema. Tuttavia provò a chiedere alla bambina di che colore fosse il vestituccio che le aveva messo per andare in chiesa quella mattina. Esterina rispose: Rosso, nonna, come le fiamme dei diavoli! A quel punto la vecchia fu travolta da una gioia che non poteva tenere a freno e gridò concitata: Miracolo è! Miracolo, mia nipote vede! Le donne presenti si fecero vicine e contagiate dalla sacralità di quel momento presero a toccare la bambina e a segnarsi, nella convinzione di poter essere toccate anche loro dalla grazia di quell’evidente e sbandierato miracolo. Accorse il parroco che in sagrestia aveva sentito le donne vociare. L’uomo, convinto di doverle richiamare al silenzio che il luogo richiedeva, si ritrovò a gestire un’onda che andava e veniva, ora presso la nonna e la nipote, subito dopo vicina al prete. Le parrocchiane si erano assunte all’istante la funzione che ha il coro nelle tragedie greche, tutte insieme gridavano, tutte insieme piangevano, tutte insieme ridevano. Il sant’uomo dovette faticare non poco per venire a capo di quel delirio e aprendosi un varco nell’onda anomala, come Mosè al cospetto del Mar Rosso, guadagnò la prima fila davanti a nonna e nipote. Seduto, prese a calmare la bambina che nel frattempo scalciava e gridava davvero come un’ indiavolata a causa delle mille mani che le toccavano il corpo. Le regalò l’ immaginetta di santa Lucia proponendosi di fare un discorso a quattr’occhi con quest’ultima, in considerazione del notevole scompiglio che aveva provocato nella sua chiesa per il millantato miracolo. Un po’ di discrezione, che diamine! Magari palesare il gesto compiuto in sua presenza, durante la messa, gli sarebbe sembrata una cortesia, altro non fosse per tutto quello che aveva fatto per il triduo in suo onore. Si era in guerra ed era stata una vera impresa trovare dei fiori freschi per adornare l’altare della santa. Ma tant’è, adesso aveva il coro da tenere a freno e doveva cercare di sapere bene come erano andate le cose. Prese ad interrogare la nonna e poi la bambina mentre le altre ascoltavano in superstizioso silenzio. Quando ebbe chiara la situazione lui stesso si convinse che il miracolo era tale, prese la bambina in braccio e la condusse in processione attraverso la navata maggiore, con le prefiche dietro. Giunto sulla soglia della chiesa decretò ai quattro venti l’avvenuto miracolo di santa Lucia, a beneficio dello sparuto gruppo di vecchietti che, seduti in piazza, tentavano di riscaldarsi alla luce di un infreddolito sole di dicembre. Allo stesso tempo le donne uscirono senza aspettare che il parroco celebrasse messa e corsero a casa per vantarsi di aver assistito ad un miracolo. Quando altro mai sarebbe ricapitata loro una tale enormità su cui spettegolare? Per giorni e giorni e mesi e anni, Esterina beneficiò dell’appellativo di miracolata, ma la sua vita sociale si impoverì. I figli di Biasu provarono vergogna a giocare a giochi vastasi con una quasi santa, le sorelle continuarono ad invidiarla a distanza. Provò a mettere a frutto la grazia del miracolo sposando dopo qualche anno un forestiero che, intuito il guadagno che poteva derivarne, la promosse a santona, chiedendole di ricevere durante le feste di paese, in un improvvisato tendone, tutti coloro che volevano essere a diretto contatto con una miracolata, imbrogliando quelli che volevano essere imbrogliati. Rimpianse per tutta la vita di non essere stata capace di dire la verità quel giorno in cui fu condotta dal medico del paese: è vero, gli occhi le bruciavano, ma riusciva a distinguere il volto preoccupato del dottore. Ma quando mai si deve pretendere la verità da una indiavolata?


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