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Saracena, Calabria, miti di fondazione, leggende, brunocorino

Da Bruno Corino @CorinoBruno

Saracena, Calabria, miti di fondazione, leggende, brunocorino
Consultando una fonte qualsiasi, tutte fanno risalire il nostro toponimo di Sracena all’arrivo dei Saraceni, e, in particolare, come vuole la leggenda, il toponimo ebbe origine da una Donna Saracina. Nel manoscritto riportato nella Monografia di Forestieri si parla di una «donna Saracina che aveva tenute le sorti della città» e che in suo onore il nuovo abitato prese il nome.
Questa «leggenda» è stata ripresa e riproposta da Padre Fiore ne’ Della Calabria illustrata (1691), nella quale si parla di “La Saracena” che ritiene «per impresa una donna ignuda, e scapigliata, qual si cuopre con un lenzuolo; alla quale impresa accoppiasi un’antica tradizione, appo l’Abitatori, che fosse questa Donna, la Regnante de’ Saraceni, sorpresa dall’Armi Imperiali dentro il letto, e rimasta morta nell’assalto». Anche Pacichelli nel suo Regno di Napoli in Prospettiva (1703), scrive: «E forse geroglifico dell’istoria della sua distruzione, e riedificazione, e l’impresa, che sino al presente conserva detta Terra d’una Donna ignuda, coverta in poche parti del corpo di una banda, e a quest’impresa sono uniformi alcune antiche medaglie, che nel suo Territorio si son trovate, che d’una parte hanno impresso questa Donna, e dall’altra alcune lettere greche, che la dimostrano per Donna Saracina».

Forestieri, autore della monografia di Saracena, corregge la versione di Padre Fiore, e scrive: «Senonchè avvi la tradizione dei nostri antenati, la quale sembra che abbia maggior fondamento; onde diciamo, che sorpresa nel letto la Regnante dei Saraceni, per sfuggire il furore degli armati imperiali, avvolta in un lenzuolo, si salvava con la fuga, e si ricoverava a piedi dell’antico Castello, che esisteva a mo’ di fortino, ove ora è Saracena. Qui formarono delle piccole abitazioni e quindi surse il paese, che venne nominato Saracena, nome che doveva ricordare quella donna Sovrana dei Saraceni, e perpetuare la memoria di quell’avvenimento».

Padre Francesco Russo, in Origini e prime vicende di Saracena, bollava severamente questa “leggenda” definendola senza mezzi termini come una “panzana”: «E ci sarebbe invece da domandare come abbiano fatto gli uomini di cultura del nostro secolo ad avvalorare delle panzane del genere, frutto della feconda fantasia del seicentesco P. Fiore! Oltre tutto, è semplicemente impensabile che una donna araba potesse essere sovrana di un paese, poi da essa chiamata Saracena». In ogni caso, al di là del fatto se sia plausibile che una fiera amazzone fosse a capo di questo popolo, è difficile credere che i bizantini, dopo aver sgominato questa banda di predoni, lasciassero alcuni superstiti tranquillamente vivere ai piedi del Torrione. Se, effettivamente, c’è stato uno scontro armato è probabile che i bizantini non facessero prigionieri.

Eppure, i miti, come le leggende, raccontano una storia segreta, anzi sono le porte “segrete” della storia che ci fanno penetrare nelle stanze dei suoi misteri irrisolti, e non è certo con gli strumenti tipici della storiografia che possiamo accostarci a questi “testi iconici” per carpirne i segreti. Perché non si tratta di vicende che lasciano tracce nei documenti scritti, ma si tratta di vicende che lasciano tracce in una memoria collettiva, in un immaginario o in una memoria trasfigurata nei suoi aspetti che le rende irriconoscibili alla nostra vigile coscienza.
La leggenda, lo stemma, l’emblema stanno lì, e non possiamo far finta che non ci siano. Certo possiamo credere che siano il prodotto di una fantasia, o di una mitopoiesi, ma si tratta d’una fantasia che trasfigura la realtà, che la occulta, che la trasforma e la rimuove, come avviene nei sogni quando deformiamo i nostri desideri inconsci per non renderli palesi alla coscienza .
Dal momento che disponiamo di elementi scarsi, partiamo allora da quei pochi ma certi. Anzitutto ragioniamo sul toponimo: “Saracena”. “La Saracina”, “Saracina”, “La Saracena”, “Saracena”. È un toponimo piuttosto oscillante, non che cambia nome più volte, ma è un toponimo che per secoli non ha avuto trovato una sua stabilità. È sufficiente consultare le varie fonti scritte per rendersi conto di ciò. Antonio Salmena, lo storico moranese dell’Ottocento, afferma di aver letto «che assai prima del 1395 quella terra si chiamava Saracina»; anche nella Cosmographica di Munster (1550) troviamo sorprendentemente citato il nome Saracina; Marafioti la denominava “La Saracena” (Cronache et antichità della Calabria, 1601) allo stesso modo fa Padre Fiore. Nel libro di D. Francesco Cassiano de Silva, Dal Regno di Napoli anatomizzato (1713), in cui è riportato in tondo l’immagine del paese, troviamo di nuovo La Saracina; l’abate Pacichelli torna a chiamarla La Saracena.

Partiamo dai dati certi: essa viene raffigurata nell’atto di fuggire, «avvolta in un lenzuolo» (Forestieri), «che si cuopre con un lenzuolo» (Fiore), «coverta in poche parti del corpo di una banda» (Pacichelli); il fatto che avesse addosso un cencio ha indotto a credere che la donna sia stata sorpresa nel sonno, e che, senza aver avuto il tempo di vestirsi, si sia avvolta nel lenzuolo per coprire la sua nudità. Forestieri vuole correggere la versione di Padre Fiore, richiamandosi, com’egli stesso scrive, alla «tradizione dei nostri maggiori», e afferma che se la donna fosse morta nell’assalto, essa «non sarebbe stata dipinta in atto di fuggire e coi capelli sciolti».
L’“istantanea”, come in una fotografia, che abbiamo di questa donna è quella di una figura che fugge con in mano un pugnale, coperta da una striscia di stoffa e con i capelli sciolti al vento. V’è raffigurata una donna giovane, sulla trentina d’anni, diciamo anche piuttosto bella e avvenente. L’autore che l’ha ritratta nello stemma del polittico cinquecentesco è anonimo. Se questo stemma si trova a fianco di quello dei principi di San Severino, che all’epoca era i nostri signori feudatari, doveva essere riconosciuto già a quel tempo come lo stemma ufficiale della nostra Terra.

Un altro dato inconfutabile: ciò che l’immagine narra (“fuga della donna”) è legata alla fondazione del paese. Possiamo classificare questo episodio come un “mito di fondazione”, ma, come scrive Girard, «gli storici moderni non prendono sul serio simili storie». Abbiamo registrato la reazione di Padre Russo, il quale, non diversamente dagli altri storici, vedeva in questa “storiella” aspetti inverosimili e assurdi, da sembrare così fantastici che è difficile prenderli anche per un attimo in seria considerazione.
In altri termini, è difficile scorgere vittime reali e violenze concrete dietro temi così fantastici. Via via che ci siamo allontanati dall’episodio di violenza, tutti gli elementi della storia sono stati trasfigurati in una “favola innocente”; la storiella viene di generazione in generazione depurata dai suoi aspetti più cruenti, e la vittima, su cui un tempo si sono concentrati tutti i veleni e gli odi scaturiti all’interno della comunità, subisce una metamorfosi: se prima era considerata la causa del disordine e di tutti i mali che hanno investito una comunità, dopo la sua morte violenta subisce una sorta di “beatificazione”, e viene, appunto, considerata un’“eroina”.
È il meccanismo, come spiega Girard, del “capro espiatorio”: «Quest’ipotesi infatti risolve l’enigma fondamentale di ogni mitologia: l’ordine assente o compromesso dal capro espiatorio si ristabilisce o si stabilisce grazie a colui che lo ha inizialmente turbato» (Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 74).

Riprendiamo, allora, il filo della nostra narrazione. Su un villaggio di contadini, un giorno s’abbatte un’orda selvaggia che lo mette a ferro e a fuoco. Pochi superstiti riescono a mettersi in salvo trovando rifugio tra i monti impervi. Molte donne vengono catturate e tenute in ostaggio. Tra queste però v’è una che si lega in modo particolare al capo di quest’orda, fino a divenire “quasi” una di loro: rinnega le sue origini, tradisce il suo popolo. È ormai chiamata da tutti “A’ Saracina” perché vive e si comporta come una di loro. Dopo alcuni anni, arriva un esercito bizantino a snidare questa banda di “pagani”. A questo esercito si uniscono anche i superstiti del luogo.
Gli arabi hanno la peggio, vengono tutti uccisi. Le donne che sono state costrette a giacere con questi “pagani”, vengono risparmiate, insieme ai loro figli, viene loro riconosciuto l’attenuante di essere state costrette a subire le violenze degli occupanti; ma non perdonano la "Saracina"; tutti le danno la caccia; lei è colpevole perché non solo ha giaciuto con il loro capo ma addirittura è passata dalla loro parte. Forse ha addirittura combattuta a loro fianco. La scovano. Una turba inferocita comincia a strapparle i vestiti, quasi la denudano. Lei si difende stringendo nella mano un pugnale. Ma una folle di donne e uomini la circonda. Qualcuno comincia a tirare una bastonata alla Saracina, che cade a terra, altri colpi micidiali s’avventano sul suo corpo, martoriandolo. Nessuna piange. Tutti tornano nelle loro capanne soddisfatti della vendetta, ma ognuno ha davanti ai suoi occhi l’immagine della donna che semivestita brandisce il suo pugnale. Il prima e il dopo sono cancellati.
Rimane nella memoria di chi ha partecipato a quel linciaggio soltanto un’immagine e rimane adesso un luogo dove è stata uccisa la Saracina.

I tre nuclei che hanno partecipato all’omicidio si dividono. Questi tre nuclei non sono facile da amalgamare. Ognuno nutre nei confronti dell’altro un odio profondo e viscerale. Il nucleo dei sestini si stabilisce nel rione delle “Armi”. Quello, invece, dei discendenti dai saraceni si trovava a ridosso della fortezza, nel rione tra San Pietro o dei “Pagani”. I bizantini vanno a edificare lo Scarano. Tutt’e tre i nuclei hanno qualcosa che li accomuna: hanno partecipato all’omicidio della Saracina. Paradossalmente, questa colpa comune crea un legame di solidarietà: la comunità comincia a riconoscersi in questo atto fondatore.
Il luogo dove è stata uccisa la Saracina viene riconosciuto da ognuno di questi nuclei come un luogo condiviso. Dire “Ara Saracina” voleva indicare il punto dove è stato commesso l’omicidio da tutti riconoscibile. E per cancellare la memoria di questo sito l’intero abitato viene denominato con il suo nome. La donna traditrice del suo popolo è stata trasformata in un’eroina, e, trasfigurata nei suoi tratti, ora è diventata la donna che con il suo eroismo ha messo in salvo l'abitato. A questo punto, la storia reale, la violenza collettiva è già stata trasformata nel giro di poche generazioni in leggenda, e ognuno può ricamare la sua trama innocente ed eroica.

Vorrei concludere con le parole di Girard, la cui intelligenza mi ha permesso di svelare il mistero della nostra leggenda: «La congiunzione perpetua, nei miti, tra una vittima assolutamente colpevole e una conclusione violenta e insieme liberatoria non può essere spiegata se non con la forza estrema del meccanismo del capro espiatorio. Quest’ipotesi infatti risolve l’enigma fondamentale di ogni mitologia: l’ordine assente o compromesso dal capro espiatorio si ristabilisce o si stabilisce grazie a colui che lo ha inizialmente turbato. Ma sì, è proprio così. È pensabile che una vittima passi per responsabile delle sciagure pubbliche, ed è proprio quello che avviene nei miti, come pure nelle persecuzioni collettive, ma nei miti soltanto, questa vittima riporta l’ordine, lo simboleggia e addirittura lo incarna» (Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 74).
Ma sì, è proprio così: ecco perché oggi possiamo gridare in coro: «Viva la Saracina», perché un tempo i nostri antenati hanno gridato in coro: «A morte a’ Saracina».


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