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Ma la forza della satira, la sua veemenza, la sua esplosività, non possono prescindere dalla percezione che l'oggetto rappresentato (ovvero chi in qualche modo se ne sente coinvolto) ha di essa. È il caso per esempio del dogma islamico dell'iconoclastia, molto radicato e sentito tra i musulmani, riferendosi all'irrappresentabilità non solo di Maometto e Allah, ma anche di ogni figura umana che possa essere oggetto di venerazione, contro cui va Charlie Hebdo ogni volta che pubblica una vignetta che raffiguri Maometto.
Dunque la domanda è: in nome della libertà di espressione, i giornalisti di Charlie Hebdo hanno superato (o superano) il limite? In che modo Charlie Hebdo e tutti i giornali di satira possono trovare giustificazione al loro superare i limiti? Qual è il principio - se non giurisprudenziale, per lo meno razionale - per cui non possono essere accusati, per esempio, di vilipendio contro le religioni? Che cosa salva la satira? La risposta è semplice: la sua indipendenza, ovvero il fatto che la satira sia davvero libera da ogni condizionamento e ogni altro fine, se non quello di smascherare i vizi del potere. Non questo potere o quel potere: tutti i poteri.
Perché la vera satira non è comparativa, non fa preferenze, è questa la sua prerogativa più nobile. E finché sulle copertine di Charlie Hebdo come del Vernacoliere troveremo Cattolicesimo, Islam ed Ebraismo, non per mettere in ridicolo le religioni in quanto tali, ma per caricaturare le loro umane storture, amplificarle e metterle, nude, di fronte agli occhi dei lettori, la satira troverà nell'esercizio della sua indiscriminata libertà, il limite (necessario) alla sua stessa libertà. Del resto pensare che quelli di Charlie Hebdo se la siano cercata, è come dire che se una donna esce in minigonna e tacchi a spillo non si deve lamentare se viene stuprata.
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