Ci sono libri che si leggono perché l’argomento è di moda, perché la storia è piccante, perché sono l’ultimo prodotto di quel grande scrittore che seguiamo da sempre. Ci sono libri che si leggono perché si impongono. Libri che insinuano come un sotterfugio molesto. E libri che vanno letti per incazzarsi. Scusate il termine aulico, non me ne vengono in mente altri più calzanti. Perlomeno non su questo libro. Volete incazzarvi? Leggete Sbirritudine. Leggetelo se volete riflettere su un argomento di cui si parla sempre e mai abbastanza: la mafia. Leggetelo nell’anniversario della strage di Capaci o di via D’Amelio, in quello dell’uccisione di Fava, di Livatino, degli uomini di scorta, di don Puglisi. Leggetelo quando vi diranno che la mafia non esiste, che la situazione è sotto controllo, che dovete firmare le dimissioni in bianco se volete lavorare o che quell’uomo politico vi farà assumere nella cooperativa della moglie. Leggetelo perché avete sentito delle intercettazioni di Crocetta sulla sorella di Borsellino, e non sapete più di chi fidarvi. Leggetelo quando, delusi, avrete la tentazione di dire “chissenefrega, tanto sono tutti uguali”. Ecco, è lì l’errore: non sono tutti uguali. Molti sono uguali, molti sono corrotti e corruttibili, molti sono ciechi o accondiscendenti. Molti, ma uno no. E Sbirritudine racconta la sua storia, lunga venticinque anni. Raccolta da Giorgio Glaviano, sceneggiatore siciliano all’esordio come romanziere, e messa giù con parole magre e ruvide, che raspano la pelle, si srotola quasi in forma cinematografica la vita difficile di un poliziotto non come gli altri. Un poliziotto che non vuole chiudere gli occhi e neanche abbassare lo sguardo. Di più: un poliziotto e anche siciliano che non ne vuol sapere di mafia e non ne vuol sapere di un Paese sempre immerso nelle logiche della convenienza e della connivenza. Uno sbirro che parte dalla piccola provincia e dal furtarello per arrivare al cuore di uno Stato marcio, dove la mafia non è più solo Sicilia. La curiosità è l’anticamera della sbirritudine, ha affermato Totò Riina. E il protagonista è curioso oltre ogni limite: vuol comprendere, attraversare la “palude” in cui vive e prospera la società mafiosa, e rompere la calma stagnante con il suo urlo di rabbia e la sua ricerca di pulizia. Leggete questa voce incazzata e incazzatevi anche voi, come me. Perché la sua personale lotta,realmente pagata sull’unghia in termini di carriera, dolore e famiglia –l’incontro con il vero poliziotto, ovviamente anonimo, è avvenuto quando la sua esistenza era al minimo e la sua rabbia all’apice- è anche la nostra. Eppure, nonostante la comunione di intenti tra lettore e voce narrante, quasi ci si augura che la smetta, che pensi alla sua famiglia che si sgretola, ai rischi che corre in prima persona e fa correre a chi gli sta attorno. A quello che la sua lotta gli costa. Ma lui non ci riesce, non può: è malato di sbirritudine. Malattia che non presenta remissioni, morbo dai sintomi gravissimi: impossibilità di scendere a compromessi, rigidità nei rapporti coi colleghi, inflessibilità verso i delinquenti. Uno sbirro vero è una pietra durissima in un ingranaggio ben oliato, che macina nello stesso impasto mafiosi, politici, poliziotti e vittime: e lui, che in quell’impasto senza nome non vuole finire, separa meticolosamente il grano dal loglio, senza possibilità di fraintendimento: