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Scienze umane e scienze naturali (prima parte)

Creato il 19 novembre 2014 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
Bronislawmalinowskidi Michele Marsonet. Le scienze empirico-naturali (e specialmente la fisica) hanno alle spalle una lunga tradizione e una storia di brillanti successi intellettuali. Di conseguenza esse hanno influito notevolmente sulla nostra concezione della “scienza” in quanto tale: le loro caratteristiche tendono ad essere considerate come criteri ai quali ogni disciplina che voglia definirsi scientifica deve adeguarsi. Invece i risultati conseguiti dalle scienze umane e sociali sembrano, con poche eccezioni, piuttosto scarsi. Ne deriva che, da un lato, c’è una forte aspirazione a realizzare un corpo di conoscenza “scientifica” della vita sociale, comparabile quantitativamente e qualitativamente alla nostra conoscenza scientifica della natura, mentre dall’altro esistono dubbi altrettanto forti sulla possibilità che la vita sociale sia effettivamente un oggetto di studio che si presti a tale modello di analisi. Alcune delle principali questioni della filosofia delle scienze umane e sociali vertono proprio su questo dibattito: se cioè particolari caratteristiche delle scienze fisiche siano (o possano, o debbano) essere anche tipiche di uno studio sistematico della vita sociale.

Dunque il successo delle scienze empirico-naturali è all’origine della disputa – tuttora aperta – sulla loro capacità di fornire un modello valido per le scienze sociali. Vi sono, in effetti, motivi per ritenere che esse siano in grado di farlo. Tutte le scienze – si può ragionevolmente sostenere – hanno per definizione  fondamentalmente lo stesso compito, cioè quello di descrivere e di spiegare i fenomeni nel modo più economico che i fatti consentono; quindi il modello della fisica è il modello per ottenere risultati scientifici in generale. D’altra parte la fisica, diversamente dalle scienze umane e sociali, non si occupa degli “individui” in quanto tali. Gli individui hanno naturalmente un aspetto fisico, e considerati semplicemente come corpi sono sottoposti alle leggi fisiche come ogni altro corpo; ma gli individui considerati come “persone” si comportano in modi che non sembra si possano derivare da queste leggi. E poiché il comportamento degli individui (considerati come persone) costituisce l’oggetto di studio delle scienze umane e sociali, il modello della fisica è, secondo molti, inadeguato sotto parecchi aspetti (anche se non tutti), poiché gli individui non possiedono soltanto un corpo fisico, ma anche – almeno secondo l’opinione più diffusa – una mente consapevole. Dobbiamo dunque chiederci se e in quale senso ciò sia vero, e se, qualora sia vero, influisca sull’applicabilità  del  modello della fisica.

L’idea del “sociale” è connessa al fatto che gli esseri umani sono in rapporto tra loro. Queste relazioni si manifestano nell’interdipendenza delle loro azioni; l’esistenza di un fenomeno sociale implica un qualche modello basato su azioni interdipendenti. Ne consegue perciò che l’identificazione del sociale dipende da una precedente identificazione dell’azione umana.

Molti che accetterebbero questa breve caratterizzazione del sociale sosterrebbero altresì che l’identificazione e la classificazione dei fenomeni sociali dovrebbe procedere con gli stessi metodi di osservazione “empirica” che sono usati nelle scienze naturali per identificare e classificare gli oggetti fisici. I fisici registrano le caratteristiche osservabili degli oggetti come la forma, la dimensione, la posizione, il colore, l’elevazione, il rumore, etc. Si tratta di caratteristiche percepibili ai sensi e, secondo questa prospettiva (che possiamo definire “empirismo sociale”) gli scienziati sociali dovrebbero fare altrettanto. Ma se la scienza sociale si occupa di individui, la prospettiva empiristica deve in qualche modo trattare dei fenomeni della mente umana, ossia di credenze, desideri, scopi, intenzioni, princìpi morali, valori degli individui; questi ultimi appaiono strettamente connessi con le loro azioni (e interazioni), ma privi tuttavia di quelle caratteristiche che gli empiristi ritengono le sole di cui la scienza possa tener conto. In generale, agli empiristi si aprono due possibilità. (1) Essi possono ammettere che i fenomeni mentali non siano osservabili empiricamente, e trarre la conclusione che la scienza sociale deve ignorarli completamente, elaborando le sue peculiari forme di descrizione e di classificazione su una base genuinamente scientifica (che in questo caso significa “empirica”). Oppure (2) possono sostenere che una scienza sociale empirica può studiare i fenomeni mentali poiché questi corrispondono a fenomeni di comportamento manifesti, suscettibili cioè di osservazione empirica. In questa prospettiva i fenomeni mentali possono essere osservati, a tutti gli effetti, osservando il comportamento manifesto ad essi corrispondente; ma i termini tipicamente mentali di solito usati per descriverli sono in linea di principio evitabili, perché andrebbero sostituiti da termini che si riferiscono al comportamento corrispondente.

Non è difficile comprendere la popolarità di tali concezioni. La nozione di una mente non suscettibile di indagine per mezzo dei metodi empirici delle scienze empiriche evoca un senso di mistero. Se la mente non può essere indagata, che cosa si può dire di essa? Quale controllo oggettivo può darsi della validità dei resoconti che la riguardano? E se non è possibile alcun controllo, come possono essere detti scientifici? Può darsi che un individuo riesca sempre a conseguire, in linea di principio, una conoscenza soddisfacente di una mente empiricamente inosservabile (la propria), che cioè conosca direttamente i propri desideri, intenzioni, credenze e principi, anche se gli altri non possono accedervi direttamente. Ma questo, anche qualora fosse vero, non risolverebbe il problema. La scienza si occupa della conoscenza pubblica (vale a dire: inter-soggettiva). Nella scienza la testimonianza di un solo individuo non può essere accettata; qualsiasi asserzione dev’essere aperta al controllo di tutti i membri della comunità scientifica interessata. In ogni caso, la testimonianza sul contenuto di particolari menti da parte di coloro che le possiedono spesso non è disponibile agli scienziati sociali.

Considerazioni del genere, rafforzate dalla predilezione per l’unità del metodo scientifico, hanno suscitato una forte corrente di empirismo tra gli scienziati sociali, specialmente tra coloro che si sono consapevolmente interessati dello status scientifico della loro disciplina. Così fu per Auguste Comte, fondatore del positivismo, che per primo concepì l’idea di una sociologia scientifica. Dal momento che la scienza è fondata su osservazioni del mondo esterno, essa può studiare le menti degli individui solo come “fisiologia” o come comportamento manifesto. Bronislaw Malinowski, uno dei fondatori dell’antropologia moderna, sostenne dal canto suo la posizione comportamentista; per lui “pensieri”, “credenze”, “idee” e “valori” possono essere introdotti nella scienza sociale soltanto se “pienamente definiti in termini di comportamento manifesto, osservabile e fisicamente accertabile”. Un terzo esponente di rilievo dell’empirismo sociale è Émile Durkheim, altro padre fondatore della sociologia moderna.

Egli insiste su una radicale dicotomia tra “modi di pensiero” collettivi e idee delle menti individuali: i primi sono i dati rilevanti per gli scienziati sociali, le seconde no. Il motivo di questa distinzione è in parte empiristico: i modi di pensiero collettivi possono, a differenza delle idee degli individui, manifestarsi all’osservazione sensibile assumendo forme stabili e standardizzate, quali i codici di leggi scritti, credenze scritte, etc. Essi acquisiscono perciò lo status di “cose”, in quanto distinte dalle semplici idee. Tutti i “fatti sociali” sono, in questo senso, delle cose. Perciò i fatti sociali devono essere definiti e classificati nei termini delle caratteristiche che essi manifestano ai sensi.

In tempi più recenti il punto di vista empiristico è stato sostenuto con vigore anche maggiore. Parecchi autori sostengono che la scienza descrive e classifica i fenomeni in modi inevitabilmente differenti da quelli dei modi di pensare del senso comune e dell’atteggiamento pre-scientifico, e nel suo sviluppo procede continuamente a sostituire nuove descrizioni a quelle vecchie. In questo processo si è quindi avuta una costante espansione del “fisico” a spese del “mentale”. Se lo volessimo, potremmo assegnare attributi mentali come la volontà e la motivazione alle pietre o al vento (anzi, un tempo era prassi comune), ma farlo è semplicemente non scientifico; e ciò vale anche per il comportamento umano. Le descrizioni scientifiche devono essere “oggettive”, ossia tali che osservatori diversi concordino sulla descrizione di un dato fenomeno; e le descrizioni mentali non sono a loro volta oggettive. Secondo questa linea di pensiero, nelle scienze umane e sociali l’evoluzione di concetti mentali in concetti fisici è tuttora incompleta. “Volontà”, “sentimento”, “fini”, “motivazioni”, “valori”, e altri concetti mentali appartengono a una fase immatura della scienza sociale: non sono in alcun senso relativi ai dati sociali, e dovrebbero essere sostituiti al più presto da concetti puramente fisici.

E’ evidente che la conoscenza, da parte di uno scienziato sociale, di quanto avviene in una comunità dipende dalla comprensione del suo linguaggio. La quantità di osservazioni delle azioni effettivamente compiute dagli scienziati sociali è piuttosto esigua: esse dipendono in larga misura da resoconti linguistici dell’azione sia scritti che orali. Gli studiosi di scienza politica, per esempio, non assistono alle riunioni del Consiglio dei ministri; la loro conoscenza in proposito deriva dalla descrizione linguistica, fornita dai partecipanti, di quello che è avvenuto in esse. Né osservano il comportamento degli elettori, ma dipendendono dall’informazione linguistica fornita da questi ultimi. Anche i criminologi raramente osservano i delitti nel momento in cui vengono compiuti; ciò che essi sanno sulla quantità e sui tipi di delitto si fonda largamente su calcoli ufficiali, che a loro volta sono basati su resoconti linguistici. Tutti gli scienziati sociali dipendono dunque dall’informazione linguistica data in risposta a questionari. Forse i soli scienziati sociali che abitualmente osservano il loro oggetto di studio sono gli antropologi, ma perfino costoro, ovviamente, devono tener conto dell’uso del linguaggio fatto dai soggetti studiati. Ciò significa che devono o comprendere essi stessi la lingua dei gruppi studiati, oppure fare affidamento sulle traduzioni di chi conosce quella lingua. Com’è stato spesso rilevato, l’esperienza degli antropologi smentisce l’idea secondo cui l’identificazione delle azioni sarebbe un’operazione semplice, che richiederebbe soltanto un’attenta osservazione delle caratteristiche fisiche che la vita sociale presenta all’osservatore. Al contrario, occorre parecchio tempo prima che queste manifestazioni diventino comprensibili come specie particolari di azione. Esse diventano intelligibili man mano che l’antropologo impara la lingua del gruppo, che è insieme parte essenziale della sua vita sociale e mezzo per interrogare i partecipanti circa quella vita.

Il linguaggio è per molti versi il fenomeno sociale per eccellenza, e la vita sociale degli uomini è inconcepibile senza di esso. E’ perciò interessante valutare il programma empiristico per la scienza sociale alla luce dell’inevitabile esigenza dello scienziato sociale di comprendere il linguaggio. Empiristi come Carnap sottolineno l’importanza del linguaggio; essi tuttavia sono dell’idea che si tratti di un dato empirico da studiare come tutti gli altri. Naturalmente il linguaggio presenta all’osservatore determinate caratteristiche empiriche: certi suoni, certi segni sulla carta o altre superfici, nuvole di fumo che si alzano da un fuoco, etc. Si noti, tuttavia, che riconoscere questi fenomeni come linguaggio è già andare oltre la descrizione empirica, poiché implica il riconoscimento di qualche tipo di codice.

Suoni, segni e fumo non sono, in quanto tali, fenomeni linguistici; lo diventano attraverso le convenzioni di particolari gruppi sociali. Si può qui utilizzare in modo appropriato l’antica distinzione tra natura da un lato e convenzione dall’altro. Descrivere gli individui in quanto fanno uso del linguaggio (parlato e scritto) non è semplicemente descriverli mentre producono suoni o segni; è anche attribuire certe caratteristiche mentali sia a chi parla o scrive, sia ai membri della sua comunità linguistica in generale. Un uomo non parla a meno che non intenda, con l’emissione di certi suoni, trasmettere ad altri un certo “significato”; e perché egli vi riesca, gli altri devono condividere con lui la consapevolezza di un certo significato convenzionale attribuito a quei suoni da una comunità linguistica alla quale appartengono tanto il parlante quanto gli ascoltatori.

Gli antiempiristi sostengono che l’inadeguatezza della trattazione empiristica del linguaggio diventa chiara se consideriamo come uno scienziato sociale possa sapere non soltanto che la gente usa un linguaggio, ma che cosa dice esattamente, ossia che cosa significano le parole. Ogni tentativo di comprendere il linguaggio sulla base delle caratteristiche fisiche delle parole usate è destinato, seguendo questa linea argomentativa, all’insuccesso.

Come fa allora lo scienziato sociale, o chiunque altro, a imparare un linguaggio se già non lo conosce? Un argomento piuttosto controverso degli empiristi sostiene che il significato delle parole è (o potrebbe essere) imparato osservando le correlazioni tra l’emissione di particolari suoni e la presenza di particolari oggetti. Così si potrebbe imparare il significato del suono “gatto” sentendolo ripetutamente pronunciato in presenza di un gatto; e indubbiamente i bambini piccoli, e coloro che devono imparare una lingua sconosciuta senza l’aiuto di un insegnante, lo apprendono, almeno in parte, in questo modo. Tuttavia, chiunque non vada oltre la constatazione di un rapporto tra suono e oggetto non potrebbe aver compreso che “gatto” è una parola distinta dalla risposta a uno stimolo. Per cogliere questo è necessario rendersi conto che si tratta di un suono prodotto dagli individui quando “intendono” trasmettere qualcosa circa un dato tipo di oggetto (un gatto) del quale non è necessaria la presenza effettiva. Per gli antiempiristi sarebbe dunque impossibile imparare una lingua senza interpretare in termini di “categorie mentali” ciò che viene osservato.

La conoscenza della lingua di una comunità pone lo scienziato sociale in grado di interrogare i suoi membri. Questo è un privilegio negato agli scienziati naturali; esso deve tuttavia essere usato con cautela, poiché può dare luogo a fraintendimenti, soprattutto nei casi in cui il ricercatore potrebbe essere tentato di supporre che egli e il suo oggetto di studio condividono esattamente lo stesso linguaggio. Gli scienziati sociali che ricorrono all’uso di questionari si sono spesso trovati in difficoltà, supponendo erroneamente che, per esempio, delle persone non istruite comprendano termini astratti come “classe” allo stesso modo in cui li intendono loro. Ciò conferma l’opinione secondo cui lo scienziato sociale deve comprendere il significato soggettivo del linguaggio per chi lo usa, e non limitarsi a osservarne le caratteristiche empiriche. Di solito allo scienziato sociale non basterà comprendere il significato del suo interlocutore: gli scienziati sociali normalmente aspirano a usare le asserzioni dei loro informatori riguardo al verificarsi di qualcosa come “prova” che ciò accade di fatto. Assumere che un individuo abbia la conoscenza necessaria per fornire un’informazione corretta implica anche un giudizio sulla sua disposizione mentale, cioè sul fatto che egli vuole trasmettere quell’informazione con la sua risposta (anche se molti informatori possono avere dei motivi per fuorviare chi pone domande). Lo scienziato naturale, per quanto possa anch’egli avere difficoltà nell’interpretare le sue osservazioni, non deve preoccuparsi della possibilità che il suo oggetto di studio voglia tentare di ingannarlo.

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