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Scrittore aspirante suicida cerca casa editrice: da Roberto Saviano a Kurt Vonnegut

Creato il 25 agosto 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Kurt-Vonnegut-US-Army-portraitdi Umberto Scopa. Prendo atto che il pluripubblicato Roberto Saviano in un recente articolo su l’Espresso ha scritto un accorato articolo per accusare taluni non meglio precisati aspiranti scrittori di inseguire il successo in modi discutibili senza riuscirci, problema che forse attanaglia il mondo della cultura italiana molto più dell’analfabetismo e dell’assenza di lettori e delle politiche commerciali delle Case Editrici. Mentre Roberto Saviano paragona questi “velenosi” personaggi a Willy Coyote, dimentico forse del fatto che il mitico Willy era un campione insuperabile di simpatia, io preferirei condividere con il più vasto mare degli aspiranti scrittori alcune riflessioni semiserie su come pubblicare un libro. In particolare si come pubblicare un libro se non in vita, che sarebbe troppo, almeno dopo.

Mi permetto di citare per tutti un consiglio dello scrittore Kurt Vonnegut che io amo particolarmente e che non è più tra noi. Diceva Kurt che se un autore esordiente ha scritto un libro, e non riesce a pubblicarlo, il modo migliore per essere considerato dal mondo editoriale è il suicidio. Rileggo sempre con piacere Kurt Vonnegut, è un grande (un po’ meno però quando dà consigli agli aspiranti scrittori). In realtà niente di nuovo. Già Gabriele d’Annunzio aveva intuito la portata pubblicitaria della propria morte. Lungi dal concepire il suicidio aveva più opportunamente optato per la diffusione della falsa notizia della sua morte dovuta ad una caduta da cavallo. Tra tutte le morti possibili si era scelto una fine senza dubbio elegante e gloriosa, alla D’Annunzio. La sua vanità non avrebbe mai accettato l’idea di morire preso a calci da un somaro. Comunque D’Annunzio aveva pensato di procurarsi la morte ma senza privarsi del piacere di osservarla da vivo. Tornato poi ufficialmente tra i vivi ci è rimasto a lungo fino alla morte naturale, quella che non ammette smentite o ripensamenti. Che sia più facile pubblicare qualcosa dopo la propria dipartita può anche darsi, senza considerare il vantaggio non trascurabile di pubblicare senza non dover trattare con gli editori, lasciando questa nefasta incombenza agli eredi.  Quando le Case editrici contrattano con gli autori esordienti hanno il deprecabile vizio di imporre in tutti i modi quella clausola avvilente dell’acquisto da parte dell’autore di un bel quantitativo di volumi del suo stesso libro. La montagna di copie è poi destinata ad essere distribuita dall’autore ad amici e parenti, e se non bastano anche a qualche sconosciuto. Moltissime Case Editrici operano in questo modo perché non considerano più i lettori come la loro clientela, e ripiegano sugli autori.  E’ come se in tempo di crisi le case automobilistiche costringessero i loro progettisti a comprare duecento vetture di quelle prodotte o un impresa immobiliare costringesse gli architetti a comprare gli appartamenti che hanno disegnato. Un giorno forse succederà. L’autore esordiente intanto, dopo aver acquistato una montagna di volumi del suo libro, mette in moto un meccanismo circolatorio del suo libro per cui i volumi passano di mano in mano dai diretti omaggiati, che non vedono l’ora di disfarsene, ad altri soggetti anche casuali. La staffetta sarà tale che il passaggio di mano in mano dei volumi avrà una velocità misurata inferiore solo a quella di un assegno scoperto.  In breve lo scritto  attraverserà un numero di persone che va oltre le migliori aspettative dello scrittore, sempre che le sue aspettative non avessero anche preso in considerazione la rimozione del cellophan dai volumi. Dettagli. Da vivi non è difficile procurarsi questo tipo di contratto con una casa editrice. Basta telefonare e tirare fuori un assegno. A mio parere tuttavia acquistare duecento volumi di un proprio libro è un gesto talmente deprimente da rendere l’insano gesto, che si volesse a questo punto concepire, quasi sano. Non tanto per i duecento libri, ma perché avere duecento libri tutti uguali e che dicono tutti esattamente la stessa cosa, cioè che siamo dei falliti, un pò disturba. Tornando al tema, cioè la morte auto procurata dell’autore, ecco, sconsiglio di usare i sonniferi, perché hanno questo effetto collaterale fastidioso, almeno su di me, che fanno dormire. Infatti morire nel sonno poi non è così desiderabile come taluni pensano. Lo sanno gli appassionati di Edgar Allan Poe.  Nella sua fantasia macabra Edgar Allan Poe aveva ipotizzato che se uno muore nel sonno si trova a vivere per l’eternità nel sogno che stava facendo al momento della morte. E’ un bel rischio. Se stavate sognando di pubblicare il vostro libro avete risolto il problema, è vero, ma nessuno ha il controllo sui suoi sogni.  Io per esempio di notte sogno spesso che la sveglia sta suonando e non riesco a spegnerla. Vivere per l’eternità in questo modo mi sembra una pena che neppure Dante nella sua fantasia sadica era riuscito a concepire. Certo, se un uomo (inteso come sesso) sta sognando di essere in una “cena elegante” davanti ad un’esibizione di Burlesque, mentre sul tavolo si esibisce una danzatrice anche lei così elegante che indossa solo una cravatta, e null’altro, si potrebbe pensare che non sia così male l’eternità, ma sappia che da un momento all’altro arriva nel sogno la Bocassini. E non quella travestita, ma l’originale. Quindi niente sonniferi, se temete i vostri sogni. Se il suicidio riesce non è detto poi che ai fini di una considerazione letteraria nel mondo dei vivi la cosa funzioni. Sì, perché la notizia del suicidio potrebbe essere oscurata dalla sfortunata e imprevedibile concomitanza con altri eventi che hanno una risonanza molto maggiore. Non so metti per esempio che quel giorno, intendo il giorno del suicidio, succede che Antonio Cassano rilascia un’intervista sul tema dell’omosessualità e si parla solo di lui. Fregato. Perché il suicidio è come una carta che ti giochi una volta sola. Non è come nei chewingum di una volta che c’era scritto “riprova sarai più fortunato”. Ma c’è un’altra considerazione che dovrebbe indurvi a mettere da parte i propositi di un insano gesto. Io capisco che è difficile farsi pubblicare un libro da vivi, se non siete Cassano, Totti, o un tronista, ma vi dico una cosa: se andate nell’aldilà vi trovate a tu per tu con Proust, Balzac, Calvino, Rigoni Stern, Buzzati, Conrad, Poe e via a non finire tutti i mostri sacri della letteratura, i veri fuoriclasse. Sareste più o meno come Renato Brunetta che si trova a correre i cento metri alle olimpiadi contro Bolt, anzi conto migliaia di Bolt. Provate poi a spiegare a Prust che laggiù tra i vivi vi stanno pubblicando un libro e il prezzo di copertina non è inferiore al suo. Un po’ di sana vergogna dovreste provarla. Meglio stare da questa parte, cioè tra i vivi e provarci con i più modesti avversari che il destino vi ha assegnato, cioè Cassano, Totti e i tronisti. Certo la sconfitta con questi avversari è, lo ammetto, un po’ ingloriosa.

Feature image, Kurt Vonnegut nel 1940.

 


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