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"Se questo è un uomo" di Primo Levi. Branco di semi-vivi in un mondo di morti

Creato il 24 settembre 2010 da Sulromanzo
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Di Michele Rainone
Se questo è un uomo, Primo Levi.

Non c’è traccia di dignità in questo diario, non può esserci traccia: un branco di semi-vivi in un mondo di morti vive le sue ultime due, tre, quattro ore. Poco importa se diventeranno mesi e anni, se il 27 gennaio 1945 arriveranno i russi, gli esseri umani: i semi-vivi non hanno futuro, non possono averlo, non devono averlo. Il futuro presuppone pensieri: nel lager non c’è tempo per pensare, non bisogna farlo: è il modo più masochista per abbandonarsi alla morte.  Eppure, Primo Levi sopravvive, e non solo grazie alla sua laurea in Chimica, che pure gli è servita per accedere inaspettatamente al laboratorio della salvezza; l’Haftling, il deportato, riesce a non toccare il limite della bestialità; lui, Alberto e i tre Infektionsabteilung sanno di essere dei “domati” della Germania nazista, ma non demordono: le loro sembianze disumane non li privano di affetto sincero, di amore per se stessi, e per gli altri. C’è il freddo, ci sono i tedeschi, ci sono poche razioni di pane al giorno, c’è dignità: sono riusciti a resistere all’oltraggio della barbarie nazista. Senza armi, senza rancore.  Le poche righe dedicate ai rapporti umani si affollano nella mente solo alla fine di Se questo è un uomo: prima, la vergogna di aver contribuito a una mostruosità simile adombra qualsiasi altro sentimento. Non c’è tempo per immaginare il futuro della nobile amicizia tra Alberto e Primo; non c’è tempo per pensare se questa o quest’altra “bestia” riuscirà a salvarsi, a portare via da quell’inferno ciò che resta di sé. Non abbiamo tempo per frivolezze umane: il lavoro attende anche noi. Sì, un lavoro di cuore, un grande sforzo per continuare a leggere, senza lasciarsi sopraffare dalla voglia di chiudere un libro che è vita. Non risulta difficile capire come un chimico abbia potuto dar vita a questo scritto che, a ragion veduta, nessuno dovrebbe definire capolavoro. E non perché non abbia le carte in regola per esserlo. Questo diario, che nasce in un laboratorio del lager, non vuole essere un’opera d’arte, un testo letterario dei più belli, non vuole e non deve esserlo: lasciamo il bello scrivere agli altri, lasciamo le disquisizioni sullo stile e sul contenuto al resto della letteratura italiana. Questo libro non ha bisogno di critica, né di giudizi: Se questo è un uomo vive da sé.  La più grande offesa perpetrata ai danni del genere umano, questo è l’unico pensiero che rimbomba nella testa durante la lettura: non la morte dell’uomo, ma la sua riduzione a bestia; a stupide bestie che non riescono più a commuoversi dinanzi all’insorto di Birkenau, che ha avuto la forza di gridare al lager intero e, grazie a Levi, al futuro tutto: “Compagni, io sono l’Ultimo”; a stupide bestie che riescono finalmente a trovare un po’ di umanità in quel 18 gennaio 1945, quando la “Storia di dieci giorni” ha inizio, e non sono i russi a trovare gli ebrei, ma i vecchi “inferiori” a ritrovare se stessi. Essere semi-vivi in un branco di morti (i soldati, le guardie… Potete forse definirle vive?) non è un miracolo di Dio, ma un miracolo dell’uomo: in quel “campo di annientamento”, qualcuno ha perso se stesso, ma è riuscito a mantenere la dignità che tutti gli altri non hanno avuto né il coraggio né la forza di tenere stretta a sé. È questo il senso di Se questo è un uomo: la tragedia della storia ha sopraffatto l’umanità intera, ha costretto i deportati, gli Haftlinge, a vivere “al di qua del bene e del male”, ma non ha ucciso l’animo di chi, in fin dei conti, ha sempre sperato. Ha sempre lottato per sperare.

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