Magazine Diario personale

Sedie

Da Mizaar

VAN GOGHTi ho trovata seduta tra il mobile bianco a cassetti e lo stipite della porta scorrevole, su una mezza sedia che avevi rifoderato con una stoffa provenzale a piccoli fiori colorati su fondo azzurro scuro. Che ci fai seduta lì? ti ho chiesto. Con un’alzata di spalle non mi hai risposto. Che fastidio vederti su quella maledetta  piccola sedia, quasi accucciata in un angolo di una casa troppo grande e troppo estranea, una casa che avevi voluto ad ogni costo.

Ti era costata una lunga ed estenuante trattativa con il vecchio proprietario, una casa che avevi voluto affacciata sulla piazza principale. Si era rivelato un errore, quella casa, troppo rumorosa in estate con il frastuono del traffico continuo che se pur distante, tu stavi al sesto piano, sentivi amplificato dalla grandezza della piazza. E c’erano gli uccelli impazziti sugli alberi folti che a volte, verso sera, ti toglievano il respiro. Li avresti voluti silenti, quando la malattia ti ha costretto al letto,  mentre quelli volavano schiamazzanti in un parossistico crepuscolo, che avevi quasi l’impressione lo facessero apposta. Però godevi di una vista ineguagliabile sul porto, le case arroccate e vicine, abbaglianti, la chiusa del molo con il fortino, l’accenno del verde dei giardini comunali; e con la tramontana, sul cielo azzurro e lontano, si disegnava il contorno del Gargano. Ma tu negavi a te stessa la gloria di quella vista e tenevi perennemente chiusa, come una barriera, la serranda. A sollecitarti ad aprirla dicevi che sarebbe entrato troppo vento oppure troppa luce, o gli odori che provenivano dalla canna fumaria del ristorante di fronte. Era tutto troppo per te e quella casa non sapevi godertela. Sicchè ti confinavi sulla sedia piccola, rintanata lì, disconoscendo i divani e le belle poltrone comode, foderate con un cretonne a rose bianche, le rose della tua infanzia, le tue preferite.

Ma perché sei seduta lì? Ti ho ripetuto. Hai iniziato a piangere. Ti sentivi tradita dalla vita, arrabbiata con te stessa per l’incapacità di godere delle cose, ancora più arrabbiata per esserti ammalata, sapendo che non avresti avuto scampo, ma fingendo anche con te stessa di covare speranze. Una contraddizione costante la tua vita, in contrasto con te stessa, volitiva e fragile insieme. La odio quella sedia! ti ho detto, e il pianto s’è trasformato in un sorriso appena accennato e tristissimo. Mi hai risposto: Poi la butti via. L’ho buttata davvero.


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