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Senza buona flessibilità niente crescita

Creato il 23 marzo 2012 da Fabio1983
È ancora presto per decretare se la riforma – così come è stata illustrata dagli esponenti di governo – sia la migliore soluzione possibile ai ritardi che hanno condizionato (negativamente) l’ingresso nel mercato del lavoro dei giovani nonché reso tortuoso il cammino di molte donne, tanto per scomodare le due categorie più penalizzate. Gli obiettivi del governo erano chiari fin dal principio: evitare che la precarietà venisse ulteriormente alimentata da cavillose regole e regolette e diminuire la disoccupazione al 4-5% strutturale. Un traguardo a portata di mano? Difficile a dirsi, anche perché – e la questione rientra tra le cose da annoverare – sarà il Parlamento a esprimersi sul merito del provvedimento (a cui seguirà un determinato atteggiamento dell’esecutivo, di certo non restio a ricorrere alla fiducia se necessario). Alcune misure sembrano interessanti ad una prima lettura. Dalle sperimentazioni dei congedi di paternità obbligatori agli stage dopo la laurea o dopo il master che dovranno essere piuttosto un lavoro a tempo determinato. Però la polemica attorno all’articolo 18 è stata il fulcro di tutto. La Cgil è stata l’unica parte in causa a non avere accettato le modifiche e diversi dirigenti del Pd hanno storto il naso in quanto la ristrutturazione pretesa dal governo non rievoca il modello tedesco a cui sembrava fare riferimento (secondo quest’ultimo è il giudice che decide per il reintegro o per il risarcimento anche nei casi di licenziamenti dovuti a ragioni economiche, in soldoni). Viene da chiedersi, tuttavia, se la polemica in queste settimane non sia stata intrisa di vetero ideologismo non perché l’articolo 18 sia qualcosa di sbagliato – tutt’altro –, ma poiché è mancato nella discussione un quadro dell’insieme. L’articolo 18 rappresenta(va) una minima parte dei lavoratori italiani e misure più concrete avrebbero potuto riguardare un aggiustamento delle relazioni industriali con accordi aziendali o territoriali di produttività. Diminuire la precarietà facendosi largo tra le 46 tipologie contrattuali esistenti significa non solo ridurre al minimo indispensabile il numero dei contratti, ma contestualizzare, e dunque “modernizzare”, gli strumenti vigenti. Si tenga conto di pochi numeri, sebbene esemplari della giungla che è il nostro mercato del lavoro: sono 1,6 milioni i lavoratori precari in Italia, per lo più co.co.pro e finte partite Iva, aumentate peraltro del 57% nei primi otto mesi del 2011. La disoccupazione è al 9,2% e quella giovanile (15-24 anni) ha raggiunto livelli record attestandosi al 31,1%. Forse, riflessione tanto banale quanto ovvia, è giunto il momento di iniziare a guardare al tasso di occupazione, se davvero l’obiettivo è la crescita. Possibilmente estendendo le tutele a ogni categoria e iniziando a produrre la “buona flessibilità”.
(pubblicato ieri su Sfera pubblica)

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