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Senza nessuna pietà, l’incontro con Pierfrancesco Favino

Creato il 01 settembre 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

È ingrassato venti chili per poter interpretare il ruolo che lo porta a Venezia anche in veste per la prima volta di produttore, un debutto che lo rende “molto soddisfatto”, anche se “la paura è tanta”. Lui è Pierfrancesco Favino, mattatore della migliore tradizione del cinema italiano contemporaneo, il film è “Senza nessuna pietà”, esordio alla regia di Michele Alhaique in concorso nella sezione Orizzonti della 71. Mostra del Cinema di Venezia. Favino è Mimmo, solitario muratore della periferia di Roma, silenzioso e instancabile lavoratore, prigioniero del proprio corpo e di un mondo che è quello del clan familiare a cui appartiene. L’incontro-scontro con Tanya, in una capitale insolitamente noir, lo porterà ad affrontare un’inaspettata scoperta di sé e del mondo.

Chi è Mimmo?
E’ un uomo accettato e vessato da chi lo circonda per la sua mole e per la capacità di sapere a volte ‘convincere fisicamente’ le persone. Ma è anche un uomo che in questa vicenda ha trovato una sua dimensione: lo zio sta per abdicare e presto le regole del clan cambieranno. A questa difficoltà iniziale se ne aggiungerà un’altra, totalmente inattesa: quella di una presenza femminile, uno scontro più che un incontro che genererà una rivoluzione interiore.

Pierfrancesco Favino - Venezia 71
“Senza nessuna pietà” segna il tuo debutto da produttore. Quali sono state le difficoltà più grandi?
Non parlerei di difficoltà. Innanzitutto ho avuto la fortuna di interpretare un ruolo che mi piace moltissimo e che già sulla carta aveva delle grandi possibilità. Mi hanno convinto tante cose: Michele ha un talento evidente, c’era una bellissima storia, c’era la voglia di condividere una visione di come ci piacerebbe lavorare, e poi l’opportunità di riuscire a costruire insieme quel valore aggiunto che ha a che fare con tutte le persone portate dentro al progetto. Non si tratta solo di denaro, ma è una questione di intenti dal punto di vista creativo. Quando ho letto la storia sono rimasto affascinato dall’idea che si parlasse di individui e non di personaggi, erano persone che riuscivo a comprendere leggendo. È quello che in fondo succede quando si guarda un film: ognuno di noi come spettatore ha la possibilità di intercettare in questi due personaggi qualcosa che gli appartiene, perché Tanya e Mimmo hanno una vicenda molto più comune di quella che può apparentemente sembrare.

Hai affrontato una trasformazione fisica evidente per questo ruolo. Sei dovuto ingrassare venti chili…
Sì, ma non l’ho fatto in maniera virtuosistica, perché credo che il corpo soprattutto per il cinema sia la chiave di lettura di un uomo, così come succede nella vita in fondo. Per me sarebbe stato impossibile immaginare cosa fosse la vita di un uomo ingabbiato in quel corpo, lo stesso che gli permette di far parte di un ambiente e di essere rispettato. Respirare all’interno di quel corpo, alzarsi la mattina, avere il dolore di schiena, vedere le reazioni di chi ti sta intorno mi ha fatto capire come si possa vivere questa condizione. Mimmo era un personaggio comprensibile quasi esclusivamente attraverso questa dimensione. Nel nostro quotidiano c’è un’idea di bellezza e di estetica a cui riferirsi che è sempre una; ecco, mi piaceva l’idea che quest’uomo pensasse di non poter mai affascinare una donna così bella, che la sfera della sessualità e dell’emotività gli fosse completamente negata.

Cosa ti piace di Mimmo?
Il fatto che sia un individuo e non un personaggio. I personaggi diventano tali quando rimangono nella mente delle persone, sono delle definizioni, Tanya e Mimmo invece sono delle persone, degli esseri umani, che hanno bisogno di affrontare delle cose e che agiscono in maniera istintiva.Come spettatore amo la possibilità di capire ciò che accade. Mi piacerebbe che il cinema italiano tornasse a raccontare questo tipo di storie, dando allo spettatore l’opportunità di mettere insieme i pezzi, di sentirsi parte della storia e di farsi la famosa domanda: “E ora cosa succede?”

Molti altri tuoi colleghi come te hanno di recente deciso di intraprendere la strada della produzione o della regia. Come mai? Insoddisfatti del proprio lavoro?
Penso che sia un modo per il cinema italiano di assumersi la responsabilità di riuscire a fare sistema. Non è una questione di insoddisfazione, ma piuttosto di voglia di rimboccarsi le maniche per poter avere più voci, è un atto di amore nei confronti del cinema italiano. Non mi sta stretto il ruolo di attore, sono molto fortunato, ma ho anche un’età in cui è giusto prendersi la responsabilità di portare linfa al cinema italiano.

Ti rivedremo ancora come produttore?
Se circondato dalle persone con cui condividere una visione del lavoro e un’idea, ovviamente sì così come l’ho fatto in teatro. Non mi sento un eroe, è avvenuto tutto in maniera sentimentale, emotiva e diretta.

Di Elisabetta Bartucca per Oggialcinema.net

Foto di Federica De Masi per Oggialcinema.net


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