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Senza pericolo – Eugenio Montale

Creato il 23 novembre 2013 da Hodyjean

Il filosofo interdisciplinare
è quel tale che ama se vautrer
(vuol dire stravaccarsi) nel più fetido
lerciume consumistico. E il peggio è
che lo fa con suprema voluttà
e ovviamente dall’alto di una cattedra
già da lui disprezzata.

Non s’era visto mai
che un naufrago incapace di nuotare
delirasse di gioia mentre la nave
colava a picco. Ma non c’è pericolo
per gli uomini pneumatici e lui lo sa.

Questa poesia, tratta dalla raccolta “Quaderno di quattro anni”, è una degli ultimi componimenti di Montale. Spesso si tende a inserirla nell’amalgama indefinita di quello che viene chiamato “l’ultimo Montale” e si finisce così, irrimediabilmente, per confonderla tra le poesie della raccolta “Satura”. Devo però ammettere che l’errore è veniale, perché lo stile e l’argomento trattato sono gli stessi presenti in Satura. E allora vediamo di abbandonare le spesso inutili categorizzazioni e veniamo al dunque. Leggiamo la poesia e riflettiamoci sopra, consapevoli però che essa è molto difficile, e per questo sono alte le probabilità di sconfinare nella banalità. Possiamo solo sperare che ciò non accada.

L’inizio è molto semplice, ma solo nella struttura della frase. Pulita, scorrevole, vivace, sembra dare inizio a una poesia diversa da quella che in realtà è. Dopo le prime due righe infatti, si comprende che quella che sembrava una spensierata introduzione, è invece una definizione colma di violento sarcasmo. Montale tenta infatti di delineare una figura umana che vi parrà familiare, familiare tanto più oggi che allora, ma che già esisteva negli anni ’70 e che l’occhio attento e intelligente del poeta ligure già aveva intuito. È la figura di quello che potremmo definire un “tuttologo”,  una di quelle persone che spaziando da un argomento all’altro con assoluta disinvoltura, riescono a costruire discorsi (all’apparenza) sensati e perfino quasi credibili. Di sicuro ve n’è venuta in mente una, forse la ricordate apparire a un talk show, o forse a qualche altro programma televisivo. Ci sono perfino persone che senza vergogna balzano da un programma all’altro, da un argomento all’altro, parlando prima di calcio e poi di scienza, per soffermarsi un attimo sui problemi sociali, improvvisandosi esperti nutrizionisti, tornando poi a fare i giudici sportivi, per sconfinare in ultima istanza in discorsi sul sesso.

Ora che avete compreso la figura, potete anche comprendere la rabbia di Montale nei confronti di tale figura. Il filosofo interdisciplinare è il primo colpevole della formazione di una immensa e devastante sottocultura, non solo perché l’approva e perché ci sguazza dentro, ma soprattutto perché lui, che dovrebbe essere l’intellettuale, colui che si fa dovrebbe fare carico del sapere contemporaneo e che dovrebbe impegnarsi per la costruzione di una nuova cultura, proprio lui, preferisce invece immergersi nel più fetido lerciume consumistico con suprema voluttà. Se la storia si ripete, questo sentimento montaliano può essere accostato a quello di Leopardi, altamente insofferente nei confronti degli intellettuali del suo tempo. Forse mi sbaglio, e per questo preferisco non andare oltre. Lascio questa mia frase come semplice spunto di riflessione.

Passiamo alla seconda parte della poesia: è quella che mi lascia più perplesso. Sono perplesso perché in questa immagine del naufrago non possono essere assenti richiami alla poesia passata, anzi, deve per forza esserci una qualche eco che richiama la letteratura precedente, non solo perché l’immagine del naufrago è un’immagine che si è spesso prestata, nel corso dei secoli, a molte narrazioni e interpretazioni, ma anche perché una citazione letteraria sarebbe in questo punto della poesia perfetta: richiamarsi alla cultura antica è un modo di contrastare la nuova sottocultura moderna. Significa prendere totale distacco da quest’ultima, cercando di superarla attraverso il recupero del passato. È secondo me questa una brillante azione letteraria, un intelligente e accorto modus operandi. Non poteva fare di meglio, Montale.

E forse a pensarci bene, non è importante che questa figura del naufrago si richiami esattamente a una figura passata, perché che sia l’Ulisse dantesco, o quello virgiliano, o che si richiami forse a Seneca, il concetto non cambia. Il concetto è quello di richiamarsi, con una sola figura, quella del naufrago, a tutta la letteratura precedente e tendere un legame con essa. Legarsi alla cultura precedente, fare uno stretto nodo che permetta di tenersela stretta, per non perderla mai e con essa andare avanti. Ecco il vero senso di questi versi.

Ma il finale, dopo una debole e ben mascherata speranza, è tragico. Il filosofo interdisciplinare riesce stare a galla, senza annegare, e nella sua mediocrità resiste là dove lo stesso Ulisse era crollato, resiste e sembra impossibile una sua sconfitta. Resiste perché è un pallone gonfiato, e in quanto tale pieno d’aria e, come un pneumatico, galleggia. Ma questo non è il peggio. Il peggio sta nelle ultime tre parole: lui lo sa. In queste tre parole c’è la consapevolezza di essere fetido, fetente e disgustoso. È la consapevolezza, la coscienza di sé, ad essere essa stessa sporca e lercia. Ed è questo che né io né Montale riusciamo a sopportare.

E forse, forse la cosa ancora peggiore è che noi, come molti altri, lo stiamo ad ascoltare.

Jean

Bere il cervello

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