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Sette poesie di Francesco Gallina e una nota critica di Sonia Caporossi

Creato il 31 gennaio 2015 da Criticaimpura @CriticaImpura
Francesco Gallina

Francesco Gallina

Di SONIA CAPOROSSI

Francesco Gallina è un baldo  scrittore e poeta parmense ventiduenne, già molto attivo nel panorama letterario con numerosi premi nazionali in poesia e prosa e un thriller psicologico d’esordio alle spalle (De Perfectione, Helicon Edizioni). La selezione poetica che qui presentiamo è composta da sette testi che inquadrano perfettamente il lavoro di ricerca, di tipo soprattutto semantico e lessicale, dell’autore. Vi traspare un genuino e onesto neobarocchismo massimalista di fondo a fare da contrasto con la scelta di argomenti quotidiani e d’attualità accanto a tematiche schiettamente intimiste e liriche. Al di là delle suggestioni poetiche che l’autore stesso dichiara ostentatamente di riconoscere come proprie (Luciano Folgore, i poeti maccheronici, i poeti parodisti, Antonio Porta, i Vociani, Andrea Zanzotto, Pascoli, Govoni, Solmi, Montale e le ricerche dell’OULIPO), l’attitudine massimalista di cui parlavamo balugina attraverso il manierato sfoggio delle figure retoriche più istituzionali, dall’allitterazione alla metafora, dall’arcaismo per scelta dissonante all’iperbole, tuttavia rinnovate attraverso accostamenti e salti riassociativi inusuali che toccano contenuti di vita vissuta rinvigorendone il contenuto banale attraverso una “elefantiasi del dettaglio”, come direbbe Walter Pedullà, di tipo quasi gaddiano, nella veste scrittoria, e ispirata all’attitudine decadente, neocrepuscolare, di un civilismo impegnato postnichilistico nella posa. In questo senso, la versificazione di Gallina, illuminata com’è da epifanie improvvise di senso, ci sembra già marcata da una consapevolezza evidente dei propri mezzi e delle proprie intenzioni, aperta com’è alla comunicazione di contenuti anche lirici esteticamente fruibili da tutti, tuttavia attraverso una veste che dell’ironia e del grottesco, in senso finalmente metaoggettivistico, faccia vessillo in direzione di un recupero di ciò che fino a ieri sembrava straniante e che oggi permane ambiguo persino pensare: un Io davvero non-lirico in poesia, giacché, come scrive il poeta stesso, egli ha “abbandonato da tempo per strade / ambigue il ritmo del pronome io”.

Sonia Caporossi

Di FRANCESCO GALLINA

 

DIOTTRIE

 

Le forme nei turgidi lineamenti

all’alba impreparata, fosca e falba

di una nuova vista (nuovi pigmenti?)

 

si offrono oltre la lente appena fatta

quasi vere, sirene o alme morgane.

Ma ecco il fumo, il colore dell’ovatta

 

davanti alle pupille –due ossidiane –

che fanno da filtro e vedono opaco

se l’occhiale viene tolto: permane

 

l’alone: «ci vedo ben intricato!»

dico all’oculista, col destro chiuso

e il sinistro che arranca, affaticato.

 

Mostra le lenti: «È un problema diffuso!»

è tranquillo: ma io ho una strana paura

che questa correzione sia un sopruso

 

al vero, che la realtà non sia pura

non più vista come prima: inquinata

contraffatta, sotto una brutta abiura.

 

La realtà non mi pare come appaia:

un falso abbaglio, penso. Tutta colpa

di questa maledetta miopia.

 

dall’antologia Mevoj (Tapirulan, 2014)

 

HOMOCALIPSE

 

È tutta colpa del sistema: dicono

è tutta colpa del Sistema

dell’Idea platonica (idea scema)

che scema dal tubo catodico

alla bocca ancestrale della superstizione

fra le sinapsi del rivoluzionario

che trema dentro di sé al suono

del buon ragionamento, dell’oggetto

dell’imputazione, dell’io-agente.

 

Ma è tutta colpa del sistema: urlano

è tutta colpa del Sistema

e – all’evidenza – incalzano con l’arma

del complotto, del mistero misterioso

della cabala, iniettando una tarma

nella cocuzza del vecchietto mezzo rotto

nel bambino all’ascolto, esterrefatto

nel licenziato che s’incide l’aorta

nel riccone opinionista che si annoia

nell’operaio adirato, nella parola.

 

Si accantona allora l’atto del prodotto:

si addita il manufatto alla mano

del destino, al numero otto, al galattico

Volere, al fato fatto di chimere

alzando il naso alla sera ultraterrena.

 

Invocano l’Amore, l’amputazione

del ricordo: finge di essere morto

l’assassino che pesta la mano

che per sbaglio spara alla testa

che rompe il cammino della vita

però lui prega il Dio dell’indulto

della finta disperazione

e fida nel giudice intimidito

nella scusa, nel pater noster.

 

Mi chiedo allora dov’è

la responsabilità

se l’ora dell’occulto è sorta

se la coscienza risolve ogni problema

nell’Assoluto, se dal termine sistema

non guariremo più, se non avrà termine

questo diffuso herpes zoster

questa cancrena che ammazza l’IO.

 

EFFIMERI APPIGLI

 

Sono nel corpo arpioni di paura

che pungono con l’acido dell’ansia

affinché negli anfratti del cervello

fertilizzi la serpe del terrore.

 

Queste maledette gocce di calma

sulla lingua assorbono, poi, i pensieri.

È un attimo:

a liquide inspirazioni s’arena

sul cuscino il cuore e il suo martellare.

 

Ritornerà il mattino e avrà con sé

il sapore dell’incubo suicida

che trascina, come mucillagine

d’una letale lumaca, il ricordo

del sogno appena fatto e

lascia l’aroma di paroxetina

nelle sconnesse mulattiere

del pensiero.

 

I nervi contestano e rivogliono

impazienti quella dolcissima

bradicardia in gocce.

 

S’accascia per un po’ la depressione

sui valichi destrutturati

di questa vita iperattiva:

ho abbandonato da tempo per strade

ambigue il ritmo del pronome io.

 

LAMENTO DI UNA GIOVANE MONETA DA DUE EURO

 

Sotto le gomme di un’Alfa Romeo

soffre la cruda morsa della ruggine

l’icona di Dante in rilievo: sembra

che pianga, sotto gli aculei di pioggia.

 

Da Francoforte uscito fresco fresco

– dopo fusione, sbozzo a caldo

laminazione a freddo

e tranciatura del tondello –

mi impressero la figura di un vecchio:

dicon sia stato un grande, per lo meno…

 

Mi misero in marcia verso Corbetta

tra i tinnuli di tanti miei compagni:

ci ritrovammo in una macchinetta

come resto per studenti sfaticati

e di loro, uno, sotto l’imput del tabacco

dai tabacchi scorta ha fatto di sigarette.

 

Poi chiuso ha il tabaccaio per la crisi

e nella fonte di Trevi son caduto

per mano di un turista sciagurato:

cerco ancora il senso: non l’ho trovato…

Arrivò poi un clochard, mi pescò

per un piccolo pezzo di pizza alla Coop.

Andai a una madre, per il carrello

con un deposito monete un po’ vecchio:

nel riporlo, la molla mi lanciò

qui. Mai anima mi recuperò.

 

E ora piove sul selciato

sui miei costosi otto grammi e mezzo.

Vissuto per un mese o poco più

non voglio qui stare, fermo, senza un fine

senza un perché: meglio scivolare

in quel piombino che porta verso il mare

dove possa riavere sul fondale

la mia antica origine minerale.

 

COLLA

 

etilcianoacrilato è

questo ricordo fuso

col lontano passato

che trita, storce il viso

secca il respiro, le dita incolla

e non c’è acetone che tenga

 

con l’acqua bollente s’insiste

si tenta in ultimo con la lama

ma quel ricordo è una cisti,

monade d’inconscio che non si stacca

-alla radice, ferma-

all’improvviso sale

germoglia fin verso la bocca

e più torna a galla, più fa male

 

come una ribellione

non la si vuole abbandonare

è resina, colla epossidica,

è nostra, ma con essa è guerra

e la gemma del ricordo ricade

nella bellica terra della memoria.

 

A PUMMAROLA

 

A pummarola: dentro quel barattolo

assapori la voglia che Munira

ha di svegliarsi alle tre di mattina

per quei due soldi in più. C’è tutto il cuore

del saper apprezzare la fatica.

“Almeno qui, uccisi come bestie, non si muore”

pensa. Si sbaglia: a due passi

dagli immensi campi per le conserve,

è stato sgozzato un ragazzo

per problemi d’onore.

 

A pummarola: sulle lattine

c’è scritto così, ma non sa dirlo,

Munira dal velo sul capo

ha la R moscia, perde le M per strada e

abbandona dietro di sé sfingi sporche

di sangue. Ha perso un figlio,

nella Cairo serpeggiante di scontri

ha perso Yusuf, l’unico suo figlio

in piazza Tahrir, nel mezzo del golpe

contro il presidente Morsi.

 

E così la fuga, forse per paura

per stanchezza, per orrore:

intanto una sua lacrima si confonde

col sudore e intride, infonde,

il terriccio appena più scuro

di quello del mai scordato Egitto.

 

Il male, però, resta sulla terra

come nella sua testa: vano è evadere

dai ricordi, dai fantasmi, dai rimorsi.

Quel che Munira cerca,

nei campi macchiati di rosso, è un dolore

solo più attutito, monocorde.

 

NEL VUOTO SVUOTATO DAL VUOTO

 

mentre prudentemente

il girasole

sviene, tramontando

 

parenti ci scopriamo della solitudine

– non per un sciocco fatto di geni –

in questo semiparalitico sepolcreto

(da noi voluto?)

dove nel vuoto svuotato dal vuoto

s’assiste inermi all’istante

dall’occasione persa demolito

 

e perduto è tutto, attorno.

s’adagia

in un logorante pessimismo

forse frutto d’un pensiero abortito

solo qualche breve truciolo di gioia


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