Magazine Diario personale

Shah Mat

Da Scriptomanti

Il candore dell'ideale garrisce nel vento: è lo stendardo immacolato della nostra virtuosa fazione. Luce su di noi, a illuminare il campo, i volti dei giusti, le spade dei retti.

Perché non è ossimoro combattere per la pace: non c'è macchia; non si commette onta alcuna nel ragionar la guerra come un delizioso esercizio dell'ingenio.

Nerofumo, ci fa muovere invisibili nella notte: strisciamo nell'oscurità e ci ammantiamo di tenebra; portiamo il sabotaggio e l'assassinio nelle linee nemiche. Colpiamo alle spalle ghignando.

Nero grasso sulle mani tiene in vita l'artiglieria. A ogni centro i serventi esplodono un grido, mentre altrove il terrore serpeggia fra reclute e veterani, mutilati e caduti.

Nero sarà lo stuolo di corvi sulla brulicante pianura, l'orda che becchetta il cadavere del nemico schiacciato.

Il Monarca illuminato è al sicuro tra le Torri.

Isolato, dal suo palco sopraelevato dove il conflitto non ha volto né voce, osserva i reggimenti sulla carta, numeri e mappe, elaborando il piano, formulando una strategia; la guerra vinta con il goniometro e la squadra.

La Regina, prima al suo fianco, ora è pronta a compiere la mossa. Lei, Valchiria e Minerva, indurita dal parto e dalle angosce coniugali, alza lo sguardo. Pronunciati gli ultimi giuramenti di eterno amore, la Sovrana guerriera imbraccia l'acuminata lancia del proprio intelletto e solleva l'inossidabile scudo di tempra femminea. Avanza agguerrita verso il nemico, come la leonessa in pericolo, votata all'estremo sacrificio per difendere il proprio marito, signore e, con esso, il popolo suo figlio.

I Pedoni sono feccia: nati dalla violenza e dallo stupro, non seguono Alfieri o condottieri; sono bastardi insoddisfatti, alla costante ricerca della buona morte.

Sono la prima linea. Sono le baionette innestate. Sono la falange di ferro. Cani sbavanti, anelanti dei nemici l'assoluta rovina. Vogliono lanciarsi contro le difese avversarie; per impalare, conficcarsi nelle carni e ingravidare così il fango con il denso sangue dei caduti.
Non c'è molto da pensare quando si hanno uomini votati al macello, come tori sacrificali bramosi di saziare il grasso ventre del dio marziale: la strega, fiutato un facile massacro, si è lanciata in avanti; come una baldracca a cui venga sbattuto in faccia un pasciuto borsellino traboccante di conio.
Trascinata allo scoperto, esposta; è questione di un attimo: con un balzo il destriero, appesantito dalla gualdrappa d'acciaio, scavalca le barricate di corpi spezzati e membra recise.
Dall'alto, come una folgore punitiva, la sciabola del cavaliere scintilla tra i fumi della battaglia, e infine s'infilza nell'occhio della bagascia. La lama smussata si fa strada nel bulbo scoppiato e prosegue scavando, fino a grattare con la punta il duro fondo del teschio.
Bianco.
Il candido vessillo, ora a mezz'asta, schiocca debole sulla vetta accarezzata dal vento.
Il Sovrano s'aggrappa ai merli del bastione: mai perdita fu più grande, mai lutto più disperato; la solitudine alimenta la vertigine, sull'isolata cima della torre d'avorio. Una lacrima gli scivola sulla guancia regale, ultimo addio alla compagna di vita, prima di infrangersi contro i baffi arricciati con cura, dove le labbra s'incurvano appagate.
Ogni vittoria ha un prezzo.
E una trappola ben costruita ha il valore di un intero reame.
Nero.
Il sangue spillato li galvanizza.
L'impietosa ecatombe li esalta.
Con un muggito taurino masnadieri e capitani di ventura si lanciano all'inseguimento; accorciando le distanze, strappando a morsi le leghe di distacco. Perché là, in fondo alla valle, oltre le schiere in rotta schiantate dal tuono galoppante dei cavalieri, li attende il saccheggio.
Oro, vino e fica.
Avanzano.
Silenziano i feriti con stilettate precise; depredano i morenti, tagliando il cuoio per le fibbie, le dita per gli anelli.
Un ebbro tripudio di morte e razzia.
E quando il premio è lì, a un soffio dalla presa, l'Alfiere dà l'ordine.
Risuona il canto dei corni.
In cielo l'orifiamma.
È l'ultima, grande, carica.
Addosso.


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