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Siamo fragili

Da Flavialtomonte

   La tenda fluttuava nella notte in senso antiorario, accompagnata dal vento e dai silenzi che regnavano sul terrazzo della stanza di Ker che con l’occhio più vispo, seduta su una sedia di legno, affacciata al mondo, era impegnata a guardare, a rimanere sveglia fino al mattino, come se avesse il camion della spazzatura da controllare e il martellante abbaiare dei cani da ascoltare. Con l’orecchio buono ascoltava i silenzi, con quello malconcio le parole. 
Cominciò a parlare tardi, all’età di dieci anni, perché sapeva che la vita di ogni individuo fino ai sei sarebbe stata immagazzinata per sempre nell’oscuro oblio del cervello, così fino ai dieci anni visse in Cambogia, trascorrendo intere giornate e nel suo terrazzo e nei templi di Angkor – quell’incredibile mistero l’affascinava – in devoto silenzio. 
L’ascolto fu il primo a svilupparsi, prima del linguaggio che arrivò a dieci esatti anni, si pensava, per miracolo. 
Nella casa in cui viveva con entrambi i genitori, soleva trascorrere parte del suo tempo a riflettere – non si sapeva bene se lo facesse veramente – di fronte a quell’immenso paradiso, meraviglia della natura, che la prese dal cuore e la invitò a guardare. La si credeva affetta da strani acciacchi psicofisici che la conducevano in stati di trans dalla durata di dieci ore, e fino a quel momento lei stava seduta nella medesima posizione, in terrazzo, affacciata sul mondo, a guardare, non si sapeva bene cosa. 

   Le prime volte, i genitori fecero di tutto per capire cosa avesse la bambina, quel giorno la televisione trasmetteva un programma sulle religioni, al quale intervenne un filosofo indiano, che pronunciò cinque parole esatte, cinque bastarono a far trovare ai genitori la soluzione al problema «Ti basta guardare per credere». 
Uno shock, un difetto genetico, senza trascurare che il suo fu un parto difficile, i genitori pensarono di tutto, a quel tempo poi, in quella vasta zona naturale, gli psicologi non ci sapevano ancora fare con le anime, e così, decisero di aspettare, perché Ker aveva bisogno di tempo.
Ker, stava per compiere dieci anni, e la situazione non sembrava mutare, i genitori avevano intanto perso le speranze ma non la fede in Dio – il loro Dio – che non smisero di pregare.
Era muta, forse, ma non si poteva dire lo stesso per l’udito, poiché in quell’immenso silenzio, il linguaggio era capace di perdere valore e ogni speranza, svuotata di certezze come un sacco di legumi, lentamente, volgeva al termine. Era estate, e il mese successivo a quello più caldo dell’anno avrebbe compiuto dieci anni, un compleanno che per la madre e il padre accorciava le aspettative di vita e aumentava le paure. 
Svuotarono intere biblioteche, consultarono manuali, sfogliarono riviste sul caso, bussarono alle porte di medici, otorini, oculisti, pediatri, ma nessuno seppe loro dare una risposta. Solo lei, la bambina, che quel giorno, verso l’ora di pranzo, quando ritualmente si avvicinava al tavolo dopo le dieci ore di riflessione – dalla notte al risveglio – per assaggiare un pasto. Lei, quella graziosa bambina che tutti invidiavano, dai lunghi capelli castani, occhi dalle sfumature naturali profondi e sconfinati come le piantagioni che scrutava dal terrazzo, pelle liscia, perfettamente allineata e offerta bene su braccia, cosce, mani, guance e ventre. Sarebbe diventata una donna affascinante, silenziosa e – si preannunciava – molto solitaria. 

   Quel giorno, la televisione trasmetteva un documentario sugli animali, le tigri del Bengala, rimase a guardarla per tutto il tempo, e ad ogni loro movimento l’espressione del suo viso sembrava mutare di stupore.
La madre la seguiva con lo sguardo cambiando prospettiva – un po’ sulla tigre un po’ su di lei – mollando lentamente la presa del cucchiaio, facendo ritornare la zuppa nel piatto; il padre era in silenzio, immobile come un Matrioska, il di lui fisico non si poteva dire gracile, anzi, era un uomo massiccio, fortificato nel tempo, di grande consapevolezza; gli occhi di Ker avevano smesso di essere fissi, cominciarono a gonfiarsi, a farsi lucidi: erano lacrime. Il corpo rimase inerme come se la questione la riguardasse all’interno, e con la stessa flemma e tranquillità che si era costruita in quei dieci anni di mite esistenza, pronunciò due sole parole «Siamo fragili». 
Non capirono, cominciarono ad agitarsi, la madre si avvicinò scuotendola come a levare il demone che le impediva di parlare invitandola a ripetere ciò che aveva appena pronunciato, il padre si avvicinò al televisore per controllare dove l’avesse letto ma nessuno dei due comprese fino in fondo quello che Ker voleva dire con quelle due parole. 

   Ker non piangeva, era commossa, dalla meraviglia della natura, sapeva vivere con essa con l’ascolto e alla vista di quella spontanea evoluzione vegetale e animale. La tigre le parlò, o forse Ker riusciva a capirla, ma la tigre non sembrava ascoltarla, e Ker provò a rispondere ad alta voce. La tigre aveva bisogno di aiuto e Ker – in quell’istante – si sentiva incapace e fragile. 


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