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Silenzio, si cambia! Il gioco del 15- terza parte

Da Massimo Silvano Galli @msgdixit
Silenzio, si cambia!  Il gioco del 15- terza parte
Dopo la chiacchierata coi due genitori sul cambiamento e le sue possibilità e la lieve digressione nelle trame di un bel film tornato in questi giorni nelle sale, ritrovo in studio i due genitori ai quali avevo affidato il mio inseparabile gioco del 15.
“Ho capito cosa intende dire quando parla del vuoto” è la prima cosa che la signora mi dice entrando dalla porta dello studio. Il marito la segue e in perfetta sincronia mi lancia uno sguardo tra il divertito e l’imbarazzato. 
La signora si sfila il cappotto e la sciarpa e li lascia cadere su una delle sedie contro la parete e viene a sedersi sulla stessa poltroncina che occupa solitamente quando ci vediamo.
Il marito si accomoda al suo posto e intanto lei, prima ancora che io abbia richiuso la porta dello studio, ha già ripreso a parlare: “ Io l’ho detto ad Andrea (nome di fantasia così come tutti quelli utilizzati) che noi genitori siamo troppo presenti, che riempiamo tutto lo spazio, come un uovo pieno dove non può entrare più nulla.” 
Andrea ironizza su uno dei suoi armadi – della signora – nei quali non può entrare più nessun vestito vista la quantità di abiti che possiede. La coppia stasera mi sembra stranamente di buon umore e dopo un po’ di incontri finalmente mi appaiono più rilassati e sereni e tutto ciò mi fa presagire che qualcosa sia successo. 
La signora incalza entusiasta: “Io non avevo mai capito questa cosa. Ho sempre pensato che un genitore deve dire ai propri figli cosa è bene e cosa è male, dare consigli e aiutarlo a decidere e a scegliere quando ha dei dubbi, anche a difenderlo se proprio lui non ce la fa da solo. 
Ma sa non avevo mai capito che un genitore deve saper stare anche in silenzio” E qui prevedibile come il copione di una commedia arriva l’apostrofo del marito: “Appunto!” 
La signora sfila dalla borsa una bustina di plastica trasparente nel quale sta il mio gioco del quindici e me lo passa e la prima cosa che noto è che nella bustina c’è il gioco e un tassellino che giace solo sul fondo, è quello col numero sedici. 
La signora immediatamente mi rassicura: “Guardi che non gliel'ho rotto…può incastrarlo ancora facilmente”.Le sorrido e le dico che va bene così che non c’è problema e le chiedo di continuare pure a il discorso che stava facendo entrando.
La signora non si fa certo pregare e mi racconta che nelle ultime settimane con i due ragazzi va decisamente meglio, che un po’ delle cose delle quali abbiamo parlato - tipo l’impegno scolastico del figlio maggiore e la sua fastidiosa pigrizia che a tratti assume il volto dell’accidia o i “capricci” dell’altro quattordicenne e la sua irritante disobbedienza – sembra che stiano cambiando. 
Chiedo alla signora di raccontarmi meglio quello che sta succedendo e lei mi descrive una serata seduta col marito – che al suo fianco annuisce – al tavolo della cucina, soli in casa, a chiacchierare rigirandosi tra le mani quel “coso di plastica”. 
 “Allora, all’inizio ho pensato, anzi ero sicura, che ci stava prendendo in giro, che ci stava facendo perdere tempo. Poi parlando con lui – indicando con un cenno del capo il marito – mi sono resa conto che lei ci aveva già dato l’idea.” 
Da questa intuizione i signori raccontano di aver cominciato a discutere di cosa centrasse tutta quella storia del giochino con i problemi loro e mettendo insieme i pezzi di quei lunghi incontri in studio, le cose cominciano a stare insieme. 
Ogni volta che succede qualcosa con i loro figli, si corre immediatamente a provvedere in qualche modo, a dare risposte, a comminare punizioni, a prendere qualche provvedimento senza ottenere nel tempo nessun risultato e ,come se non bastasse, ritornare ad utilizzare le medesime “soluzioni” ogniqualvolta si ripresenta il problema. 
“Come possiamo dirle - interviene ora il marito - si continua a fare le stesse cose anche se sappiamo che poi non funzionano” 
“Però questo ci fa sentire che come genitori ci siamo, che sappiamo riconoscere cosa va bene e cosa va male e che così, almeno indichiamo la retta via e, prima o poi, la capiranno” 
“ E invece?” chiedo con interesse cercando di capire cosa è successo quella sera a casa sul tavolo della cucina. 
“E invece, abbiamo capito una cosa. Dobbiamo anche stare zitti. Delle volte continuare a dire le stesse cose significa dire a quei due che tutto è come sempre, che nulla è cambiato e che possiamo andare avanti come abbiamo sempre fatto” 
La signora mi parla come se stesse cercando di affermare una tesi precisa, quasi come se mi stesse rivelando la scoperta di una nuova particella che potrebbe cambiare la concezione di un universo.
Il marito non vuol essere da meno e quasi registrandosi drammaturgicamente sul tono della voce della moglie: “Lei non può capire - o forse si lo capisce bene – cosa significa non rispondere immediatamente, prendersi il tempo, non arrabbiarsi immediatamente per un altro tre in francese o perché il piccolo arriva a casa alle undici invece che alle dieci. 
Quasi un miracolo. Intanto non ti rispondono male, rimangono lì incantati. L’altra sera Matteo (il figlio maggiore n.d.a.) mi ha detto che vorrebbe recuperare delle materie prima della fine del quadrimestre e che ne ha parlato con i suoi insegnanti. Non ci potevo credere, di sua spontanea iniziativa…mai successo” 
La signora sorride e prendendo il suo smartphone dalla tasca della giacchina, mi mostra un breve video nel quale si è autoripresa mentre dice quello che avrebbe voluto dire al figlio piccolo una decina di giorni prima quando il ragazzo le ha presentato il libretto scolastico da firmare per un assenza ingiustificata e lei ha firmato senza proferir verbo e prendendo le chiavi del motorino che ancora ha lì nella borsetta. 
“Non essendo tanto capace a star zitta, mi sfogo almeno da sola e di nascosto mi incazzo davanti alla telecamera...sa in mancanza di meglio" e ride. 
Mi piace questa coppia di genitori, sono anche un po’ matti ma hanno intuito molte cose interessanti. 
Hanno lavorato con un po’ di materiale emerso nei nostri incontri, hanno dibattuto; hanno trovato insieme delle linee strategiche per cominciare a cambiare davvero qualcosa e tanto per cominciare hanno cominciato a liberare uno spazio – altrimenti riempito di tutte le loro parole, delle loro teorie sul bene e sul male e soprattutto dell’idea di dover avere sempre una risposta giusta e immediata - nel quale i figli hanno potuto cominciare a immaginare di prendersi delle responsabilità e di costruire una vera autonomia. 
Su questo punto è importante soffermarsi specificando che la responsabilità è la capacità di rispondere di sé e delle proprie azioni e possiamo “impararla” solo se non c’è sempre qualcuno che sa già le risposte e le decide per noi, 
Lo stesso vale per l’autonomia che può essere sperimentata, capita, elaborata e immaginata solo se esiste lo spazio necessario per fare tutto questo. 
Insomma, per fare è necessario uno spazio; uno spazio che se occupato impedisce di giocare il gioco della crescita e dell’educazione. 
“In casa nostra da un po’ di tempo a questa parte c’è molto più silenzio. Non che non si parli – mi racconta il marito- ma sono sparite tutte quelle discussioni infinite, i borbottamenti, tutte quelle parole che poi ti rombano nella testa ma sono solo rumori. È un silenzio buono anche per noi perché, secondo me, abbiamo scoperto che possiamo anche assentarci un attimo e capire cosa ci succede quando ci troviamo davanti a tutte queste cose” 
Questo papà mi suggerisce una duplice importanza del silenzio – che è un vuoto di parola - che se da una parte rappresenta lo spazio vuoto nel quale l’altro può cercare le sue parole, le sue risposte e vestire gli abiti della responsabilità, dall'altra si pone come l’opportunità di sottrarsi e di ascoltarsi rispetto a quello che ci accade dentro, quello che si configura nel nostro spazio emotivo e di trovare quindi nuovi e inediti materiali utili a capire meglio noi stessi e anche l’altro. 
La signora mi dice che si è permessa di far saltare il tassello del mio giochino solo perché si è accorta che l’immagine di fondo del mio biglietto da visita è proprio quella di un particolare del gioco del quindici, proprio quello della zona di confine tra i tasselli numerati e lo spazio vuoto. 
Riprendo la bustina e gliela porgo chiedendo ad entrambi di tenerla come monumento di un pezzo di crescita e di cambiamento, quindi di educazione.
Michele Stasi

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